Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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NON SPARATE IN ARIA !   Consiglio di Stato n. 8522/2022 (Angelo Vicari)

Se ci tenete a conservare la detenzione delle vostre armi, non vi venga la tentazione di sparare un colpo in aria a scopo intimidatorio, anche in casa o nelle pertinenze, se non siete titolari di licenza di porto d’armi per difesa.
Questa esortazione sorge spontanea leggendo la sentenza del Consiglio di Stato n. 8522 del 2022, con la quale è stato respinto il ricorso in appello di un cittadino al quale il Prefetto ha revocato la detenzione delle armi, ai sensi dell’art. 39 del T.U.L.P.S., perché l’interessato ha esploso un colpo di arma da fuoco a scopo intimidatorio senza situazioni di immediato e grave pericolo per l'incolumità personale, siccome i presunti ladri sarebbero stati interessati a sottrarre gasolio dal magazzino e non a introdursi nell’abitazione dalla quale è stato esploso il colpo di pistola.
Ma il motivo più importante, per il quale il Consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimità del provvedimento prefettizio, è il richiamo alla circostanza per cui il colpo è stato esploso in aria al fine di allontanare alcuni soggetti che si erano introdotti nella proprietà, dunque per difesa personale, benché la licenza dell’arma fosse stata rilasciata per uso sportivo.
Secondo il Consiglio di Stato tale circostanza assume rilievo dirimente perché, come correttamente evidenziato dalla Prefettura, il rilascio della licenza di porto di pistola per uso sportivo ( anche se non risulta che esista una licenza di arma corta per uso sportivo, essendo previsto dalla L. n. 323/69 solo il porto delle armi lunghe per il tiro a volo, che molti dela PS chiamano licenza per uso sportivo !) non consente di utilizzare l’arma da fuoco per finalità diverse rispetto a quelle per cui la licenza è stata concessa. Pertanto, è stato ritenuto immune da vizi il provvedimento di revoca della detenzione di armi, poiché l’arma legittimamente detenuta per una determinata finalità, è stata utilizzata in modo improprio, tanto da costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di inaffidabilità del soggetto.
Non ci permettiamo di mettere in discussione la decisione del Consiglio di Stato, ma, da uomini della strada, ci sia concesso di fare alcune osservazioni.
Considerato che la legittimità del provvedimento prefettizio si è basata soprattutto sul fatto che l’interessato ha utilizzato l’arma per difesa personale, benché la licenza fosse stata rilasciata per uso sportivo, se ne deduce se il ricorrente fosse stato in possesso di licenza di porto per difesa personale, il prefetto non avrebbe avuto nulla da eccepire; e se lo avesse fatto, il Consiglio di Stato avrebbe dovuto riconoscerne l'illegittimità del suo operato!
Conclusione logica, ma assurda, ove si osservi che la licenza di porto di armi è necessaria per autorizzare il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico, come previsto dalle norme che sanzionano il porto illegale (L. n.895/67).
Peraltro, ammettiamo per assurdo che sia valida la motivazione della Prefettura, avallata del Consiglio di Stato, cioè che anche per sparare nella propria abitazione o pertinenze, occorra la licenza di porto, non si capisce perché nessuno si sia preoccupato di denunciare l’interessato per porto abusivo.
Comunque una cosa è certa, la detenzione di un’arma non è collegata a nessuna determinata finalità, né la motivazione richiesta dall’art. 8 della L. 110 per il rilascio del N.O. all’acquisto qualifica l’arma, vincolandone l’uso. Altrettanto vero è che nessuna determinata finalità deve essere riportata nella denunzia di detenzione. Infatti l’art. 38 del T.U.L.P.S. prevede solo che chiunque detiene armi deve farne denuncia, senza nessun obbligo di riportare nella stessa per quale motivo ha richiesto di acquistarla.
Inoltre, la semplice detenzione anche da parte di un soggetto non munito di licenza di porto, non vieta l’uso dell’arma all’interno della propria abitazione o delle pertinenze, sempreché siano attuate tutte le cautele per non mettere in pericolo l’incolumità delle persone (TAR Veneto n. 1205/2021), per non recare disturbo delle occupazioni o del riposo (art. 659 c.p.), evitando di sparare in luogo abitato o nelle sue adiacenze (art. 703 c.p.; Cass. 19888/2022).
E non solo l’arma può essere usata, all’interno della propria abitazione o pertinenze, per soli fini ludici, anche da chi non sia in possesso di porto d’armi, ma anche per difesa personale, al fine di difendere la propria o l’altrui incolumità, nonché i beni propri e altrui, come previsto dall’art. 52 del c.p. sulla legittima difesa, il quale, quando vi sia violazione di domicilio, permette l’uso di un’arma legittimamente detenuta, non prevedendo nessuna licenza di porto.
Considerato quanto sopra, non pare si potesse muovere nessun appunto al diretto interessato, poiché ha esploso un colpo in aria a scopo intimidatorio dalla propria abitazione, ubicata in campagna, in zona isolata, per scoraggiare ladri che già in passato avevano consumato furti e danneggiamenti alla sua proprietà, con un’arma legittimamente detenuta.
E’ infine da rilevare che, contrariamente alla maggioranza delle sentenze del giudice amministrativo nelle quali vengono compensate le spese di giudizio, questa volta l’appellante è stato anche condannato al pagamento di una somma in favore dell’Amministrazione.
Nonostante tali osservazioni, come affermavano i nostri padri latini (credo quia absurdum), quali uomini della strada siamo costretti a credere, nonostante l’assurdità sia del provvedimento prefettizio che della sentenza.

Firenze 14 novembre 2022                             ANGELO VICARI

 

 

NOTA di Edoardo Mori
L'episodio commentato è un tipico caso di vaneggiamento sul nulla totale da parte di organi della P.A. Prefetti che usano a orecchio vuote formule ciclostilate nei loro atti, senza preoccuparsi di conoscere la legge che applicano e senza preoccuparsi dei fatti.
Nel caso di specie si è scritto che: " la condotta (sparo in aria) non era giustificata da effettive esigenze di difesa derivanti da situazioni di immediato e grave pericolo per l’incolumità personale".
Vediamo la situazione di fatto: casa fuori dell'abitato con un cortile che racchiude casa e magazzino; di notte scatta l'allarme e il proprietario esce sul cortile con la pistola legalmente detenuta e spara due colpi in aria. Nulla che non sia assolutamente nella norma. Purtroppo è normale che per molti uffici di pubblica sicurezza il fatto di disturbare il loro riposo di notte configuri un procurato allarme da reprimere e castigare con ogni mezzo. Dice il proverbio che chi non può battere l'asino, batte la sella; se non si trova il ladro si dà addosso a chi ha chiamato!
Orbene:
Che c'entrano i criteri sulla legittima difesa? Essi si applicano a chi ha commesso un reato, ma nel caso di specie né la polizia né l'autorità giudiziaria hanno ravvisato alcuna contravvenzione e quindi o hanno escluso che lo sparo fosse pericoloso, oppure hanno ritenuto che fosse giustificato. Ed essi erano stati sul luogo, avevano valutato i fatti ed avevano deciso di conseguenza. La balistica insegna che un proiettile di pistola sparato verticalmente ricade con la stessa pericolosità di un chicco di grandine e che, se è sparato contro terra o una parete, è pericoloso solo in relazione alla possibilità di un rimbalzo (se si spara contro una catasta di legna o sulla terra smossa, il pericolo non si crea). Quindi, o il prefetto riteneva di aver acquisito lui stesso una notizia di reato sfuggita all'autorità giudiziaria, ed era tenuto a trasmetterla egli stesso, oppure non era più legittimato a valutare la questione già ritenuta conforme alla legge da chi aveva un potere di farlo superiore al suo. Comunque la casa non era entro un abitato e si poteva sparare liberamente dentro e fuori casa e l'interessato non ha commesso alcun porto illegale in quanto per portare un'arma di qualsia tipo, purché non da guerra, nelle pertinenze della propria abitazione non occorre alcuna licenza! E infatti la polizia giudiziaria non lo ha denunziato: Forse conoscevano la legge meglio di prefetti e giudici del Tar e del Consiglio di Stato!
È ovvio comunque per ogni giurista che un'arma si usa per difendersi da pericoli, che si può sparare per prevenire un tale pericolo, vero o presunto (putativo) o per far scappare chi potrebbe essere pericoloso per le persone o i beni. E pare cosa ovvia che se uno ritiene che un tale pericolo sussiste, può sparare contro persone, se il pericolo è elevato, o può sparare in aria in via preventiva. Non vi è una terza possibilità. Che può fare l'interessato? Mostrare l'arma e fare bum con la bocca? Mostrar l'arma e battere le mani sperando che il suono ricordi uno sparo? Aspettare che qualcuno si faccia avanti e spari a lui?
Eppure il prefetto, dall'alto della sua poltrona, ha "sentenziato" che non vi era pericolo in quanto i presunti ladri – ove realmente presenti nell’area circostante l’abitazione – sarebbero stati interessati a sottrarre del gasolio dal magazzino e non a introdursi nell’abitazione dalla quale è stato esploso il colpo di pistola. Avete capito bene? Secondo il prefetto il poveretto, sentito l'allarme che proteggeva il suo cortile e ritenuto che (come avrebbe fatto ogni persona normale con la mente non deformata da poltrone), nel migliore dei casi, dei malintenzionati andavano a rubargli del gasolio nel magazzino, avrebbe dovuto attendere che dessero segno di voler entrare in casa e solo allora poteva sparare in aria! Ma che cavolo c'entra il pericolo di introduzione? Forse che un rapinatore non può sparare da fuori o dar fuoco alla casa? Forse che non ci si può difendere da chi "solamente" ci deruba? Il prefetto non ha capito che di proporzione fra pericolo ed azione se ne parla quando si deve valutare se ferire o uccidere, non quando si pensa solo di far rumore!
Queste non sono motivazioni, ma un'accozzaglia di farfugliamenti per nascondere il vuoto e cercare di catigare in ogni modo un cittadino che non gode ad essere derubato.
Non entro nei problemi di diritto delle armi, già adeguatamente esposti dall'Amico Vicari, ma quando un prefetto ignora che per difendersi da un pericolo si può usare qualsiasi tipo di arma disponibile, che la licenza di porto d'armi sportive richiamata, non esiste, ma che vi è solo una licenza di porto di fucile per il tiro a volo; quando ignora che è stato proprio il ministero a costringere chi vuol comperare armi o munizioni a munirsi di questa licenza anche se non vuol tirare a volo; quando ignora che per prendere in mano un'arma quando si è in casa e sue pertinenze, non ci vuole la licenza di porto d'arma (forse che su uno in casa spara alla moglie, risponde di porto abusivo di arma?), ebbene, non ci starebbe male un'indagine per controllare come in Italia si fanno gli esami e i concorsi.
E il TAR e il Consiglio di Stato? Si sono bevuto tutto ciò che aveva scritto il prefetto, come fosse vino da Messa, compreso tappo e fecce. Sono i controllori e troppo spesso dimostrano di ritenere prefetti e questori e appuntati più competenti di loro e quindi di aver bisogno di essere controllati essi stessi!

***

SENTENZA del Consiglio di Stato 8522/2022
sul ricorso numero di registro generale 1579 del 2019, proposto da
-OMISSIS- rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Sala della Cuna, Antonio Bana, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Antonio Sala della Cuna in Grosotto, via Statale, 83;
contro
Ministero dell'Interno,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti;
FATTO
In data 3 febbraio 2017, il Prefetto di *** ha disposto nei confronti dell’appellante il divieto ex art. 39 T.U.L.P.S. di detenere armi, munizioni e materie esplodenti, sulla base del fatto che in data 28 dicembre 2016 l’interessato ha esploso un colpo di arma da fuoco a scopo intimidatorio nei pressi della propria abitazione, senza che la condotta fosse – secondo l’Autorità prefettizia – giustificata da effettive esigenze di difesa derivanti da situazioni di immediato e grave pericolo per l’incolumità personale. Da questo episodio il Prefetto ha desunto una grave negligenza nell’uso delle armi, tale da indurre l’Amministrazione a una valutazione negativa circa l’affidabilità del soggetto.
Con ricorso innanzi al Tar Brescia, l’interessato ha avversato il decreto prefettizio e ne ha chiesto l’annullamento, previa istanza di sospensione, assumendone l’illegittimità per violazione dell’art. 39 T.U.L.P.S., nonché per eccesso di potere sotto i profili della contraddittorietà, carenza di motivazione e violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
In sede cautelare, il Tar adito ha accolto l’istanza sospensiva, rilevando la carenza motivazionale dell’impugnato decreto, in quanto l’Amministrazione avrebbe affermato una grave negligenza nel comportamento del ricorrente, senza tuttavia esaminare puntualmente la concreta situazione di fatto e, in particolare, l’effettivo riscontro del tentativo di scasso, la reale attivazione dell’impianto di allarme, la situazione personale del ricorrente, circostanze queste astrattamente idonee a far ritenere la sussistenza di un pericolo immediato per il ricorrente e sua moglie. Sulla scorta di tale valutazione, il Tar ha adottato una ordinanza cautelare propulsiva con cui ha invitato l’Amministrazione a riesaminare la propria determinazione, alla luce di una rinnovata istruttoria che tenesse conto delle circostanze di fatto segnalate.
All’esito della procedura di riesame, la Prefettura con decreto del 13 giugno 2017 ha, dopo un’approfondita istruttoria, confermato il provvedimento di divieto di detenzione di armi, munizioni ed esplosivi. L’Amministrazione ha ribadito l’assenza di pericolo immediato per l’incolumità personale dei coniugi, in quanto i presunti ladri – ove realmente presenti nell’area circostante l’abitazione – sarebbero stati interessati a sottrarre del gasolio dal magazzino e non a introdursi nell’abitazione dalla quale è stato esploso il colpo di pistola.
La Prefettura ha giudicato affrettato l’uso dell’arma da fuoco che, invece, avrebbe dovuto costituire l’ultima soluzione in caso di pericolo immediato, in quanto, al di là dell’attivazione dell’allarme del magazzino – e non dell’abitazione –, non sussistevano ulteriori indizi della effettiva presenza dei ladri. Infine, l’Autorità prefettizia ha messo in evidenza che l’arma era detenuta dall’appellante in virtù di pregressa titolarità di licenza di porto per uso sportivo, che all’epoca dei fatti risultava scaduta. Da tale circostanza, la Prefettura ha dedotto l’abuso dell’arma detenuta per uso sportivo e utilizzata – di fatto – per difesa personale.
L’Amministrazione ha così ritenuto che l’utilizzo dell’arma da fuoco, a fronte dell’insussistenza di un pericolo immediato, dovesse considerarsi sproporzionato e fonte di pericolo, che l’Autorità di pubblica sicurezza è chiamata a prevenire.
Contro tale decreto l’interessato ha proposto motivi aggiunti, lamentando l’illegittimità del provvedimento da ultimo richiamato.
Il Tar adito non ha accolto l’istanza di sospensione formulata unitamente ai motivi aggiunti, ritenendo che la vicenda controversa fosse stata oggetto di congrua valutazione ad opera dell’Autorità competente.
L’ordinanza cautelare è stata impugnata e riformata dal Consiglio di Stato, che ha accolto l’appello cautelare, sulla base della sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, ritenendo che dovessero formare oggetto di più approfondita ponderazione nella sede di merito le peculiari modalità del fatto (l’abitazione isolata, i tentativi di furto precedenti, l’uso dell’arma con colpo esploso in aria).
Il Giudice di prime cure ha infine rigettato il ricorso, ritenendo indenne l’atto impugnato dai censurati vizi. Il Tar adito ha ribadito la necessità di graduare l’uso dell’arma secondo le esigenze specifiche del caso e nel rispetto del principio di proporzionalità tra la situazione di potenziale pericolo, per come percepita dall’agente, e le concrete modalità di impiego del mezzo utilizzato per affrontare tale contingenza, sostenendo che le peculiari modalità del fatto avevano indotto ad escludere che il ricorrente avesse posto in essere una condotta improntata al carattere di adeguatezza e proporzionalità, tale da consentire un positivo apprezzamento della idoneità dello stesso a un uso corretto delle armi.
L’appellante ha impugnato la citata pronuncia e ne ha chiesto la riforma, previa sospensione degli effetti, riproducendo essenzialmente le censure non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.
Il Ministero dell’interno si è costituito in giudizio, senza addurre difese scritte.
Nella camera di consiglio del 19 marzo 2019, il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare.
Alla pubblica udienza del 14 luglio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato.
Con un unico motivo di gravame, l’appellante, riproponendo e sviluppando le censure proposte in primo grado, deduce la violazione degli artt. 11, 39 e 43 del R.D. 18 giugno 1931 n. 773, l’illogicità della motivazione nonché la non ragionevolezza e l’ingiustizia manifesta del provvedimento impugnato in primo grado.
Secondo la ricostruzione fornita dall’appellante, il Giudice di prime cure avrebbe semplicemente confermato e riprodotto le argomentazioni già espresse in sede di rigetto della misura cautelare, disinteressandosi completamente di quanto emerso e documentato a seguito della prima ordinanza propulsiva emanata dallo stesso Giudice, con la quale venivano indicati i punti da approfondire.
L’appellante evidenzia, a tal proposito, che la casa, annessa a un magazzino e a un fienile, è isolata in campagna e che in passato è stata oggetto di incursioni di ladri con furti e danneggiamenti regolarmente denunciati. L’attivazione della sirena dell’impianto di allarme del magazzino, in piena notte, avrebbe indotto l’appellante a esplodere un colpo in aria, al fine di allontanare i presunti ladri, senza tuttavia costituire – per le modalità dell’esplosione – alcun pericolo per la pubblica incolumità. L’appellante sostiene che le specifiche modalità delle azioni escludano un pericolo di abuso dell’arma, delineando al contrario una condotta non solo legittima per l’ordinamento giuridico, ma anche proporzionata al pericolo in quel momento sussistente e percepito dai due coniugi.
L’assunto non può tuttavia essere condiviso.
La materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.
Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».
Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del -OMISSIS-, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».
La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972; Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).
Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.
Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.
L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.
È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).
Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.
Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti de quibus, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.
È noto che dal tradizionale approccio del giudizio amministrativo, teso ad escludere ogni forma di sindacato sulla attività discrezionale, si è passati alla possibilità di riconoscere la piena cognizione dei fatti oggetto dell’indagine e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Autorità amministrativa, con il solo limite dell’ottica del merito, preclusa al giudice, e comunque del sindacato non sostitutivo. Solo in questo modo, infatti, si garantisce il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, imposto dall’art. 113 Cost.
Consegue che la natura dei provvedimenti in esame non esclude né può legittimare un indebolimento del sindacato giurisdizionale. Al contrario, quanto più si estendono le maglie della discrezionalità dell’Autorità amministrativa, tanto più è necessario un sindacato penetrante da parte del giudice amministrativo volto ad evitare che sotto il mantello della discrezionalità possa celarsi un esercizio arbitrario della funzione amministrativa.
In questa logica, si pone del resto la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sia pur con riferimento alla discrezionalità tecnica delle Autorità amministrative indipendenti, ha affermato che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, teso a riscontrare vizi di manifesta illogicità e incongruenza, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, attraverso la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e il controllo sull’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, salvo il limite rappresentato dall’oggettivo margine di opinabilità (ex multis, Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).
A maggior ragione, una forma penetrante di sindacato si impone a fronte di un’attività amministrativa che vede una scelta di opportunità afferente alla valutazione dei requisiti di legge. Anche qui la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo pieno e particolarmente penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’Autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o di erronea assunzione dei fatti.
Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva – e non sanzionatoria – della misura in esame.
In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.
È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità – compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. – si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.
Il principio di ragionevolezza postula, invece, una coerenza tra la valutazione compiuta dall’Amministrazione e la decisione assunta.
Alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dal provvedimento gravato in primo grado, ritiene il Collegio che la prognosi inferenziale compiuta dall’Amministrazione resista al vaglio di questo giudice. Infatti, nel caso in esame, la valutazione negativa di affidabilità del soggetto circa l’uso corretto delle armi e il divieto di detenzione delle stesse è stata legittimamente ancorata a fatti che giustificano la prognosi di possibile abuso dell’arma.
Assume rilievo dirimente, ai fini del sindacato di legittimità del decreto prefettizio, la circostanza, indebitamente sottaciuta dall’appellante, per cui il colpo è stato esploso in aria al fine di allontanare alcuni soggetti che si erano introdotti nella sua proprietà, dunque per difesa personale, benché la licenza dell’arma fosse stata rilasciata per uso sportivo.
Come correttamente evidenziato dalla Prefettura, il rilascio della licenza di pistola per uso sportivo non consente di utilizzare l’arma da fuoco per finalità diverse rispetto a quelle per cui la licenza è stata concessa. L’appellante non ha infatti mai chiesto il rilascio di una licenza di porto d’arma per difesa personale. Tale circostanza non è trascurabile, in quanto altri sono i presupposti e i procedimenti, quando si tratti di rilasciare licenze per difesa personale.
La Sezione ritiene dunque immune dai denunciati vizi la determinazione dell’Amministrazione di disporre il divieto di detenzione di armi e munizioni, quando l’arma, legittimamente detenuta per una determinata finalità, sia utilizzata in modo improprio.
Nella specie, l’appellante si sofferma unicamente sulle circostanze di fatto tese a giustificare lo sparo in aria, trascurando tuttavia che l’arma risultava disponibile per una finalità diversa dalla difesa personale e che, di fatto, è stata utilizzata in modo improprio.
Il peso di tale circostanza, unitamente agli altri elementi evidenziati nel provvedimento avversato in primo grado, costituisce un’ipotesi ragionevole e probabile di inaffidabilità del soggetto.
Da tutto quanto sopra esposto risulta evidente che correttamente il coacervo degli elementi sopra descritti e di altri dettagliatamente illustrati nel provvedimento gravato in primo grado è stato ritenuto dall’Autorità di pubblica sicurezza sufficiente ad evidenziare l’inaffidabilità del soggetto all’uso delle armi e a legittimare, pertanto, il divieto di cui all’art. 39 T.U.L.P.S. che, si ribadisce, non ha una finalità sanzionatoria e di repressione dei reati, ma – al contrario – finalità di prevenzione, a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, per cui anche il minimo elemento atto a incrinare ragionevolmente il convincimento di un uso appropriato delle armi giustifica un provvedimento che è ispirato a criteri di precauzione e prevenzione.
Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere respinto.
La condanna al pagamento delle spese e degli onorari del secondo grado del giudizio segue la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento di euro 500,00 (cinquecento) in favore dell’Amministrazione appellata, per spese e onorari del secondo grado di giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 luglio 2022 con l'intervento dei magistrati:
Michele Corradino, Presidente, Estensore
Massimiliano Noccelli, Consigliere
Giulia Ferrari, Consigliere
Raffaello Sestini, Consigliere
Antonio Massimo Marra, Consigliere

 

 

 

 


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