Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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Consiglio di Stato - Niente licenze ai riabilitati (Angelo Vicari)

Il Consiglio di Stato ci ripensa: orientamento rigoristico dell’art. 43 del T.U.L.P.S.

Il Ministero dell’Interno ha ritenuto necessario interessare il Consiglio di Stato per un parere in merito alla interpretazione dell’art. 43 del T.U.L.P.S., relativo ai reati preclusivi al rilascio o rinnovo delle licenze di porto di armi, con riferimento agli effetti della riabilitazione.
Tale parere è stato ritenuto necessario in considerazione della recente giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato che ha adottato una interpretazione “più elastica”, in particolare per quanto riguarda i reati “datati”, a maggior ragione se “riabilitati".
Quest’ultima “apertura” ha disturbato il Ministero, preoccupato, stranamente, della eventuale responsabilità alla quale i propri funzionari si sottopongono, ove venga lasciata a questi ultimi discrezionalità nella valutazione delle istanze.
Il Consiglio di Stato ha preso atto che, da qualche tempo, si sono delineati due orientamenti nelle decisioni delle proprie Sezioni.
Il primo di tipo “rigoristico” che si è basato sulla interpretazione “letterale” del suddetto articolo, non lasciando alcuna discrezionalità di valutazione per il rilascio delle licenze di porto d’armi, in presenza dei reati elencati nell’art. 43, comma 1, siccome “il legislatore ha preventivamente escluso ogni ulteriore valutazione”, trattandosi di reati “di particolare allarme sociale” che non danno “sufficienti garanzie sulla circostanza del non abuso delle armi”.
Il secondo orientamento, definito “più elastico ha adottato “una lettura evolutiva dell’art. 43 t.u.l.p.s.” in modo particolare in presenza di “condanne molto risalenti”, soprattutto se sia intervenuta la riabilitazione, “successivamente alle quali l’interessato non sia più incorso in episodi tali da far dubitare della sua affidabilità”.
Quest’ultima interpretazione “rende detta norma compatibile con il quadro dei valori democratici, personalistici e di rieducazione del condannato, consacrati nella Costituzione”. In merito a quest’ultimo orientamento il Consiglio di Stato ha richiamato, in particolare, la sentenza n. 3719 del 2013, con la quale è stato previsto che “l’effetto preclusivo, vincolante ed automatico, proprio delle condanne penali (n.d.a. per i reati di cui all’art. 43) viene parzialmente meno una volta intervenuta la riabilitazione, ovvero l’estinzione ex art. 445 c.p.p., più precisamente viene meno l’automatismo. La condanna per quanto remota e superata dalla riabilitazione, non perde la sua rilevanza in senso assoluto, ma perde l’automatismo preclusivo”.
Dunque, in presenza di condanne per reati “remoti”, a maggior ragione se “riabilitati” o “estinti”, il responsabile del provvedimento non è obbligato al rifiuto, ma ha discrezionalità nella valutazione della condotta tenuta dal richiedente dopo la condanna.
Non sono necessarie particolari doti profetiche per prevedere quale dei due orientamenti abbia deciso di seguire il Consiglio di Stato, tenuto anche conto che il Ministero, come da copione, nella richiesta del parere, ha preso “ posizione in favore dell’orientamento tradizionale”, cioè quello “rigoristico”.
Infatti, il Consiglio di Stato, dimentico della sua sentenza, n.986 del 2007, favorevole alla considerazione dei reati riabilitati, ha affermato che “il testo della disposizione non lascia alcuna alternativa al diniego o alla revoca della licenza di porto d’armi in ipotesi di condanna per i reati” elencati nell’art. 43; “né vi sono altre disposizioni, in particolare quelle  sugli effetti della riabilitazione, che consentano deroghe”, siccome quest’ultima è presa in considerazione nell’art. 11, mentre “questa eccezione tuttavia non è stata ripresa dal citato art. 43, che ha natura speciale, disciplinando con maggior rigore la licenza di porto d’armi, attesa la pericolosità del mezzo”.
Confortato da tale parere, il Ministero dell’Interno ha emanato, in data 28 novembre 2014, la circolare n. 557/LEG/225.00, con la quale ha disposto che debbono essere rifiutate o revocate le richieste di licenze di porto di armi, senza se e senza ma, in presenza di condanne per i reati elencati nell’art. 43, primo comma, anche se sia intervenuta la riabilitazione.
Resta il dubbio se tale comportamento preclusivo debba essere tenuto anche nei confronti dei reati per i quali sia intervenuta l’estinzione ex art. 445 c.p.p., nei casi in cui la pena sia stata sospesa condizionalmente per l’art. 163 c.p., nonché se sia cambiato l’atteggiamento di “apertura” per le sentenze di patteggiamento, di cui alla circolare del 17 marzo 2003 , n. 6454, con la quale si sottolinea “ la necessità che la motivazione dei provvedimenti di diniego….non faccia esclusivo riferimento alle sentenze patteggiate e soprattutto che non faccia ad esse rinvio tout court quale elemento cardine di tipo ostativo…, ma riponga il proprio fondamento in ulteriori elementi e circostanze”.

Non ci permettiamo di entrare nel merito del parere del Consiglio di Stato, ma ci sia concesso di evidenziare come lo Stesso abbia rilevato che, sebbene il testo dell’art. 43 “non lascia alcuna alternativa al diniego”, tuttavia “ nel vigente quadro ordinamentale, l’automatismo possa apparire irragionevole con riguardo a reati come il furto e la resistenza all’autorità”.
Perplessità, inoltre, fa sorgere l’orientamento di tipo “rigoristico”, basato sulla interpretazione “letterale” dell’art. 43. Se il Giudice di tale interpretazione “restrittiva” è stato attento a rilevare che l’istituto della riabilitazione viene richiamato solo nell’art. 11, non ci sembra che lo Stesso abbia riposto altrettanta attenzione sulle due distinte potestà di rifiuto previste nell’art. 11. Infatti, in quest’ultimo il legislatore elenca condanne con le quali le autorizzazioni di polizia “debbono essere negate” ed altre in cui “possono essere negate”, volendo, così, stabilire in quali ipotesi la P.A. sia obbligata al rifiuto ed in quali, invece, viene lasciata discrezionalità di valutazione. Nell’art. 43 non si fa cenno alle due distinte potestà di rifiuto, ma si è preferito stabilire, soltanto, che “non può essere conceduta la licenza di portare armi”. Mera svista del legislatore o volontà dello stesso di lasciare un certo spazio discrezionale anche nell’interpretazione dell’art. 43?...
Non si può, infine, non rilevare che il rifiutato orientamento interpretativo “più elastico” non riconosce alla riabilitazione o estinzione dei reati di cui all’art. 43 alcun effetto di automatismo, inteso come possibilità di rilascio delle licenze in argomento, ma ne fa perdere “l’automatismo preclusivo”.Rimane, così, alla P.A. un residuo di valutazione discrezionale che, per il rifiuto,  deve tener conto anche di ulteriori, successivi elementi che permettano di dimostrare la non affidabilità per il porto delle armi.
Il potere discrezionale del funzionario, riconosciuto dal Ministero come una “insidia”, perché si accollerebbe “una potestà decisoria assai delicata e pericolosa”, dovrebbe essere, invece, considerata una scelta voluta dal legislatore del ’31 per contemperare le esigenze del cittadino con quelle della tutela della sicurezza pubblica.

Firenze 6 febbraio 2015                                        Angelo Vicari

 

Appunto di Mori:
A quanto ottimamente scritto da Vicari aggiungo una mia osservazione.
Il Consiglio di Stato, più che il tutore dei diritti del cittadino nei confronti dello Stato. continua ad essere il cane da guardia del Testo Unico fascista. Sono passati 84 anni, ma per il CdS non esiste la Costituzione che garantisce al reo di poter essere recuperato e di perdere il marchio di infamia della condanna, non esiste la legge che ha introdotto la sospensione condizionale della pena e la regola che della condanna non si deve tener più alcun conto dopo un certo tempo, non esiste il patteggiamento che estingue il reato, ecc. ecc. No, il nostro "alto consesso", misurabile a millimetri, si attacca al più bieco dei metodi interpretativi e cioè alla interpretazione letterale. Se avessero studiato meglo si ricorderebbero la massima latina secondo cui "viola certamente la legge chi si attiene alla lettera e ne viola lo spirito".

Perciò rassegnamoci ad un paese in cui è più importante proteggere il pavido funzionario che dice sempre di no, per non correre il rischio di assumersi responsabilità, piuttosto che il povero cittadino. (EM)

Qui allegata la circolare con il parere del Consiglio di Stato.

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