Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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La c.d. tipicità dell'atto amministrativo

Vi è un fantasma che si aggira per gli uffici di PS ed è quello della tipicità dell’atto amministrativo. Pare che uno dei tanti professori raccomandati che vengono chiamati ad insegnare diritto amministrativo delle scuole della polizia, abbia un po’ confuso le idee ai suoi alunni.
Quello della tipicità dell’atto è un vecchio principio del diritto amministrativo, ma negli ultimi vent’anni è stato largamente abbandonato perché si è capito che la tipicità si può riferire alla forma dell’atto (una licenza per la guida dell’auto ha un certo contenuto fissato dalla legge e il funzionario non può cambiarlo; ad esempio non può scrivere che viene rilasciata patente valida soltanto per auto con tre ruote o con la con la carrozzeria rossa! Il che, tra l’altro, non impedisce affatto che la patente venga rilasciata con una durata ridotta rispetto a quella prevista dalla legge, se il soggetto è affetto da una malattia per cui è prevedibile un progressivo peggioramento da controllare.
Invece non ha nulla a che vedere con la tipicità dell’atto il suo contenuto sostanziale che è necessariamente riferito a un determinato soggetto fisico, a determinati luoghi, a determinate situazioni di fatto, necessariamente mutevoli.
In altre parole è vero che il prefetto può solo rilasciare una patente di categoria A, B, C, D e che non può inventarsi una categoria intermedia, ma poi lo stabilire ciò che il titolare può fare con la patente è una questione personale da valutare caso per caso e che nulla ha a che vedere col principio di tipicità.
Per restare ancora al caso della patente di guida è principio pacifico, ed espresso nella stessa legge sulla circolazione stradale, che chi ha una patente di categoria D può guidare tutti i veicoli di categoria inferiore in quanto i presupposti e le condizioni per poter guidare un veicolo di categoria A, B, C sono tutti ricompresi nei requisiti ben più severi richiesti per guidare un veicolo di categoria D.
Ciò in base ad un principio logico che nessuna legge ha mai potuto negare, secondo cui “nel più sta il meno”, salvo vi sia una specifica ed espressa diversificazione di situazioni contenuta nella legge.
Ad esempio è vero che la legge di pubblica sicurezza ha sempre voluto diversificare le licenze di porto d’arma stabilendo espressamente che chi ha licenza di porto di arma corta, non può portare un’arma lunga, e viceversa. Qualcuno ricorderà che in passato si precisava persino se la licenza era per una pistola semiautomatica o per una rivoltella e il numero di colpi dell’arma lunga portabile. Questo però non per una ipotetica tipicità dell’atto, ma solo perché erano diversi i presupposti per cui la licenza veniva concessa (esigenza di difesa o esigenza di caccia) e poi, principalmente, perché si voleva differenziare strettamente il regime fiscale.
Ciò è tanto vero che la Cassazione ha più volte ripetuto che è senz’altro vero che chi ha licenza di porto per arma lunga non può mai portare un’arma corta, ma che chi è in possesso di una licenza per il porto di fucile per il tiro a volo, può tranquillamente portare il fucile per cacciare senza commettere il reato di porto illegale di arma; l’unico illecito che commette è quello fiscale per non aver non aver pagato la dovuta tassa di concessione governativa e le correlate tasse regionali. In altre parole la licenza di porto d’armi sarà tipica quanto si voglia, ma se i requisiti richiesti per portare il fucile per scopi sportivi sono i medesimi richiesti per il suo uso a fini venatori, se i requisiti psicofisici per la licenza di caccia sono più ampi di quelli per la licenza per tiro a volo, se le formalità necessarie per il conseguimento della licenza sono identiche, è chiaro che l’unica differenza tra le due licenze è il nome e la tassazione, cose che non possono incidere sulla tipicità dell’atto.
Chiara applicazione di questo principio di assoluta logica si è avuto nella circolare 17 febbraio 1998 in cui si è stabilito che chiunque è abilitato al porto di armi è necessariamente abilitato anche al loro trasporto perché la licenza di porto d’armi riconosce che il soggetto è idoneo al maneggio e all’uso di armi e perciò è di assoluta ovvietà: a) che può trasportare tutto ciò che può anche portare: b) che può trasportare anche armi che non è legittimato a portare, ad esempio un’arma corta nel caso che abbia solo una licenza per arma lunga, perché l’unico requisito richiesto per trasportare un numero limitato di armi è che il soggetto abbia i requisiti soggettivi e sia stato riconosciuto abile al maneggio delle armi. Perché mai dovrebbe munirsi di una ulteriore licenza od autorizzazione per compiere un’attività che certamente può già compiere? È un ovvio principio di diritto amministrativo, molto più importante del principio di tipicità, che l’attività amministrativa deve essere svolta in base al principio di raggiungere lo scopo voluto dalla legge con il minimo sacrificio per la pubblica amministrazione e per il cittadino  (principio di economicità).
Queste regole interpretative, come anticipato sono spesso stravolte od ignorate dalla pubblica amministrazione; è appena caso di citare quelle decisioni in cui si è detto che chi è munito di una licenza di caccia, non può usare la licenza per acquistare armi o munizioni o per trasportare armi, se non ha pagato la tassa annuale di concessione governativa. È evidente che al Ministero dell’Interno vi è qualcuno che non ha mai letto le sentenze della Cassazione o che ritiene che i giudici della Cassazione siano più ignoranti di lui.
In altri casi mi è giunta notizia di questure in cui si è sostenuto che l’armiere con licenza di vendita di armi, non sarebbe legittimato a compiere nessun’altra attività, come ad esempio il prendere in custodia armi, riceverle per spedirle ad un altro armiere come previsto dalla norma sulla vendita per corrispondenza, riceverle per valutarle, controllarle, pulirle.
Mi pare chiaro che chi ragiona in questo modo non ha mai letto la Direttiva europea sulle armi in cui si dice che "armaiolo", è qualsiasi persona fisica o giuridica che eserciti un'attività professionale consistente integralmente o in parte in una o più attività fra le seguenti: a) fabbricazione, commercio, scambio, locazione, riparazione, modifica o trasformazione di armi da fuoco o componenti essenziali. È senz’altro lecito sul piano pratico distinguere chi fabbrica da chi commercia in armi perché diverse possono essere le misure di sicurezza e controllo, diversi i locali, diversa la capacità tecnica titolare. Ma è di assoluta ovvietà che chi fabbrica armi ha necessità di venderle e di ripararle (è un obbligo specifico derivante dalle norme sul commercio produce un oggetto è anche tenuto a garantirlo e ripararlo) e che chi commercia in armi deve offrire il servizio completo di garanzia e di manutenzione e che deve poter svolgere tutte quelle attività collaterali che da sempre rientrano nel commercio delle armi; ivi compreso, ad esempio, il fatto di ricevere un’arma al solo fine di poterla inviare ad un altro armiere come espressamente previsto dalla norma sulla vendita per corrispondenza. In sostanza, nel momento in cui l’armiere rispetta l’obbligo di registrazione delle operazioni giornaliere per ogni attività che compie, non vi è nessun motivo al mondo per vietargli di compiere tutte quelle operazioni per le quali è stato riconosciuto essere idoneo e che sono assoggettate a tutti i controlli richiesti dalle norme di pubblica sicurezza.
Analogo discorso si può fare in merito al problema di ciò che ha facoltà di fare chi è titolare di una licenza di fabbricazione di armi da guerra (articolo 28 TULPS).
Egli è un soggetto che ha fornito le massime attestazioni di affidabilità, è un soggetto che ha dimostrato di avere quanto è necessario per produrre le armi per cui ha richiesto licenza, è un soggetto che deve osservare le misure di sicurezza al massimo livello e quindi, egli è un soggetto che deve registrare ogni operazione compiuta con continua possibilità di controllo da parte della PS, e quindi si può tranquillamente affermare che se può produrre e vendere armi da guerra, non vi è nessuna ragione al mondo per cui non possa produrre e vendere anche armi comuni da sparo, senza richiedere il rilascio di una specifica licenza ex articolo 31 del TULPS. Si consideri infatti che questa dovrebbe essere rilasciata comunque a vista perché non vi può essere ragione al mondo per cui essa potrebbe essere negata o per cui si potrebbe pensare che egli non ha l’idoneità o i locali prescritti per tale attività; e sarebbe senz’altro illegittima ogni richiesta di ulteriori limiti rispetto a quello già previsto per la ben più rilevante attività, ai fini dei controlli di PS, della produzione di armi da guerra.
Si consideri del resto che nella maggior parte dei casi un’arma da guerra si distingue da una analoga arma civile solo per piccoli particolari, talvolta solo per una modesta variazione del sistema di scatto. Perciò la catena di lavorazione è la stessa per entrambi i tipi di arma e solo nella fase di montaggio finale si configurerà la differenziazione decisiva; fino a quel momento è impossibile dire se le parti prodotte afferiscono ad un’arma comune o ad un'arma da guerra. Anzi è del tutto prevedibile che le parti possano venir prodotte come parti non finite anche da chi non ha una specifica licenza, che esse vegano assemblate da chi ha licenza per armi comuni e che poi l'arma venga trasferita a chi la licenza per ls fabbricazione di armi da guerra solo per l'inserimento del sistema di scatto per il tiro automatico. Perché mai le varie operazioni non dovrebbero essere consentite sulla base di un'unica licenza? Nulla cambia ai fini della sicurezza pubblica.
Si consideri che la licenza per la fabbricazione di arma da guerra è necessaria anche per poter trasformare armi da guerra in armi civili e che perciò il fabbricante acquista e lavoro su armi da guerra e alla fine si ritrova a detenere armi comuni? Forse che per compiere questa banale operazione dovrebbe anche munirsi della licenza ex articolo 31 a quale autorizza a compiere ciò che si può fare con la licenza e dell’articolo 28, ma ad un livello inferiore?
Si consideri  che potrebbe accadere, ed è già accaduto, che un’arma prodotta come arma da guerra improvvisamente venga declassificata ad arma civile (si pensi alla Beretta modello 92 cal. 9x19, prodotta come arma da guerra e che poi è passata della categoria delle armi comuni). Forse che il produttore avrebbe dovuto buttarle via solo perché non aveva la licenza di fabbricazione per armi comuni?
Ripeto: nel diritto amministrativo vige il principio di economicità, il principio di non produrre atti amministrativi inutili per regolare cose già regolate, principio che ben superiore al fantomatico principio di tipicità che si trova espresso in modo del tutto teorico nei vecchi manuali diritto amministrativo.
21-3-2018

 


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