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Abbiamo un modo ben strano di
applicare il diritto.
Dice la legge che dopo esser stati giudicati in due gradi di giudizio
si può ricorrere in Cassazione per questioni di diritto. La Cassazione
quindi deve solo stabilire quale è la regola di diritto da applicare al
caso sottopostole.
Dice la legge che un imputato può essere condannato solo se risulta
colpevole al di là ogni ragionevole dubbio.
Dice la Corte Costituzionale che non si è condannabili se, senza
colpa, si ignorava il divieto contenuto in una legge sconosciuta ai più
o incomprensibile o controversa.
Principi molto chiari, ma applicati in modo bizzarro. Vediamo alcuni
esempi attribuiti al noto signor Caio.
Caio legge sul giornale che la Cassazione ha dichiarato che non
costituisce ingiuria dire “vaffa… “ a chi ti sta scocciando. La
Cassazione non avrebbe dovuto esprimersi sul punto perché lo
stabilire se una espressione sia o meno offensiva, se in un dato
contesto di fatto, di persone, di discussione, di offese reciproche,
sia o meno lecito mandare l’interlocutore a fare certe cose, è un
giudizio di fatto che non ha nulla a che vedere con l’interpretazione
della legge. Inoltre pare proprio che la Cassazione, lontana dalla vita
reale, abbia ignorato tante cose che doveva lascia valutare al giudice
di merito. Le graduazioni di espressioni usabili sono decine, con
tantissime sfumature, dall’invito perentorio e con precisa indicazione
anatomica, all’invito mascherato ed euclideo in cui si esorta
l’interlocutore a fare cubi, alla frase monca in cui si dice di andare
a fare qualche cosa lasciata alla fantasia degli ascoltatori, al gesto
accompagnato da un suono impercettibile che può essere riferito a
diverse funzioni fisiologiche. Ha poi ignorato che nella società
moderna l’invito può essere gradito a molti e che pertanto, per questi,
ha perso il significato ingiurioso, è diventato un modo moderno
di mandare al diavolo o a quel paese. Chi mai si sentirebbe
offeso se lo mandassero “a far sesso con la moglie” ? Ha ignorato che
in molti film di successo la frase è molto usata come del tutto
normale: sarà volgare, ma solo in casi particolari ha scopo ingiurioso.
Ma Caio non è tenuto a conoscere i problemi della Cassazione e quindi
il giorno dopo, quando incontra un condomino che da un anno lo assilla
con lamentele, gli dice quello che a suo parere sarebbe bene che
facesse. Reazione legittima, poiché tutti abbiamo il diritto di
difenderci dalle petulanze verbali altrui.
Il condomino non va dove dovrebbe, ma presenta una querela; Caio,
assolto due volte dai giudici di merito, si ritrova condannato dalla
Cassazione che, con sublime noncuranza, ha cambiato idea e non si
preoccupa delle circostanze di fatto.
Caio è veramente sfortunato perché in quei giorni va a comperare una
piccola arma per divertirsi a fare tiro a segno in cantina; si
studia le leggi e trova che, per decisione della Cassazione, non è
necessario denunziare le cartucce in dotazione all’arma; è una
sciocchezza giuridica, ma Caio non può saperlo e quindi non denunzia le
cartucce. Si ritrova denunziato lui da un PM che non ammette l’idea che
un cittadino possa essere in buona fede; processato, spende cinquemila
euro di avvocato, ma la Cassazione, dopo 4 anni, cambia idea anche
questa volta e lo condanna.
Orbene, chi salvo la Cassazione, si sente di affermare che è stato Caio
a non conoscere bene la legge, che egli era tenuto a saperne più di
giudici con oltre 40 anni di esperienza, che doveva essere tanto furbo
da non fidarsi di loro? Eppure la Corte Costituzionale è stata chiara:
se i giudici o i burocrati non si mettono d’accordo su di una
interpretazione, non sanno neppure loro che cosa ha voluto dire la
legge, non ne può soffrire il cittadino. Ma è una delle regole del
nostro diritto meno applicata dai giudici.
Purtroppo neppure la regola del ragionevole dubbio viene applicata come
si deve. Il nostro sfortunato Caio un bel giorno viene accusato di
essere un pedofilo. Fa un mutuo sulla casa e assume un noto avvocato il
quale riesce a convincere i tre giudici del tribunale che le
prove non ci sono e viene assolto. Il pubblico ministero impugna
e chiede che il caso, senza che sia stata cambiata una virgola nelle
prove, venga riesaminato in appello. Caio giustamente si chiede: ma se
tre giudici si sono convinti che sono innocente, non basta ciò a
dimostrare che vi è un ragionevolissimo dubbio sulla mia colpa? Anche
se altri tre giudici dicessero che sono colpevole, si rimarrebbe sempre
con un convincimento al 50%. Come si può superare il dubbio ormai
scritto in una sentenza? A che pro andare avanti?
Purtroppo si va avanti, perché non si ha il coraggio di fare una legge
per impedire l’accanimento giudiziario (o perché si dà per scontato che
i giudici sbagliano troppo), e in appello due giudici su tre, che
non debbono necessariamente essere più preparati o più intelligenti dei
primi, lo ritengono colpevole e lo condannano. E così Caio si ritrova
detenuto a seguito di un processo in cui quattro giudici erano convinti
della sua innocenza e solo due della sua colpevolezza, vale a dire con
una prova al 33% . E la Cassazione ha detto che ciò è cosa giustissima.
All’anima del sacrosanto principio per cui non si può condannare di
fronte ad un dubbio; un giudice serio assolve anche quando vi è l’uno
per cento di dubbio.
Non sempre Caio era stato così sfortunato: una volta era stato accusato
di spaccio di droga perché annusando la sua auto un noto cane
"molecolare" aveva scodinzolato di fronte ad un sacchetto di plastica
che aveva contenuto farina di castagne; il finanziere conduttore del
cane aveva assaggiato gli scarsi residui di polvere
accertando il tipico sapore dolciastro della cocaina e stabilendo che
il sacchetto ne aveva contenuto almeno un chilo. Caio veniva denunziato
a piede libero (prima sua fortuna), sbattuto sulla stampa come
spacciatore, con tanto di foto e il PM lo rinviava a giudizio: il suo
CTU, anch'esso finanziere aveva la bontà di riconoscere, che la droga
era stata mescolata a farina di castagne al fine di turbare il cane!
Caio, condannato in primo grado faceva eseguire una perizia di parte e
veniva assolto in appello (seconda sua fortuna): in totale spendeva
40.000 euro fra avvocati e periti. A questo punto chiedeva che gli
venissero almeno rimborsati i soldi spesi per difendersi
dall'imbecillità giudiziari e scopriva che l'Italia è uno dei pochi
paesi europei i cui si ha diritto ad un risarcimento solo se si è
finiti in carcere: cosa che va bene alla corte costituzionale; cosa che
va bene ai giudici (ovviamente) che mai si sono posti dubbi sulla
correttezza costituzionale di uno stato che sbaglia, ma non paga; cosa
che va bene per la comunità europea che unifica la curva delle banane e
la lunghezza de preservativi, ma non si preoccupa di uniformare i
diritti dei cittadini. O che forse teme che se lo stato italiano
dovesse pagar per l'inefficienza giudiziaria, il default dell'Italia
sarebbe immediato.
Caio il suo giudizio su queste vicende se lo è tenuto per sé per
evitare nuovi contrasti di opinioni!
18-2-2017
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