Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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Rapporti fra la cucina dell’Alto Adige e la cucina italiana

Edoardo Mori
(per l'Accademia Italiana della Cucina)

Rapporti fra la cucina dell’Alto Adige e la cucina italiana

Il compito di ricercare gli influssi, negativi o positivi, dell’Unità dì Italia sulla cucina dell’Alto Adige è veramente difficile, così come lo sarebbe quello analogo sulla cucina del vicino Trentino.
Il fatto è che nel 1861 il Trentino e l’Alto Adige (che allora facevano entrambe parte del Tirolo) erano saldamente in mano all’Austria e non avevano nessuna possibilità di interessarsi all’Unità d’Italia. E, a dire il vero, i sudtirolesi di lingua tedesca farebbero a meno di far parte dell’Italia ancora oggi e gli stessi trentini, a fine ottocento, erano equamente divisi fra chi voleva restare nel soffocante ordine austriaco e chi voleva diventare italiano.
Altro fattore da considerare  è che le dinamiche degli usi culinari non seguono le vicende storiche, ma le vicende sociali.
La cucina italiana ebbe un momento di grande influenza sulla cucina francese, non perché Maria de’ Medici giunse con i suoi cuochi fiorentini a Parigi  (fatto storico), ma perché la cucina italiana divenne alla moda per lo spirito di imitazione dei nobili francesi (fatto sociale).
È noto infatti che le cucine locali  sono altamente impermeabili alle novità e agli influssi delle zone confinanti; anche in presenza di ricette simili, ogni paese conserva le peculiarità della propria ricetta, probabilmente in forza della legge fisiologica per cui ogni cibo che abbiamo mangiato da bambini rappresenta per noi un modello insuperabile di bontà e perfezione culinaria, da ricercare per tutta la vita. La regola per cui l’erba del vicino è sempre più verde non vale certo in cucina, ed è una vera fortuna che sia così, perché ciò ci ha salvato dalla globalizzazione culinaria italiana.
In proposito mi pare illuminante l’esempio dei pizzoccheri della Valtellina (che, sia bene chiaro, sono del tutto diversi dai pizzoccheri della Val Chiavenna!) i quali godono, ed hanno goduto anche in passato, di indiscussa stima, che vengono preparati con grano saraceno, formaggio e burro di malga, ma che sono del tutto estranei alla cucina  dei Grigioni e dell’Alto Adige ove si producono in quantità gli stessi ingredienti, che hanno da secoli continui rapporti commerciali con la Valtellina, che sono separati da essa da confini ideali o, al massimo, da un crinale di monte. Lo stesso discorso si potrebbe fare per prodotti di valli alpine confinanti come bresaola, Speck, carne salada.
Mi sembra perciò che si possa affermare che i fatti storici sono  di scarsa importanza salvo che abbiano prodotto anche rilevanti cambiamenti sociali. Intendo dire che se gli spaghetti al pomodoro sono arrivati a Milano non è stato per la politica di Garibaldi o di Cavour, ma per l’immigrazione di un gran numero di meridionali e per i rapporti di frequentazione che si sono instaurati tra i vari gruppi etnici. Fenomeno riscontrabile in Sicilia per i contatti fra arabi e siciliani, negli Stati Uniti per la presenza di ampi gruppi italiani sempre meglio inseriti nella società. Fatti storici come invasioni e conquiste influiscono ben poco sulle cucine locali perché le genti autoctone non amano gli usi dei nemici ed invasori; anzi è più probabile che siano gli invasori ad acquisire  gli usi gastronomici dei locali, quantomeno per necessità di cose e per i contatti con le donne. Noto è l’esempio dei barbari invasori del medioevo, fagocitati rapidamente dalle popolazioni autoctone.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è che troppo spesso si esagera nello immaginare reciprochi influssi fra varie cucine  come se ogni popolo non fosse in grado di fare le sue proprie invenzioni, autonomamente da altri. Per restare alla cucina dell’Alto Adige, e quindi ad una cucina  austriaca, sono del tutto risibili quelle diatribe fra letterati che pretendono di  fare gli storici della gastrononomia e che scrivono, ad esempio, che lo Strudel di mele sarebbe stato inventato in Turchia perché là si rinviene una antica ricetta di un dolce fatto con frutta secca avvolta in un po’ di pasta! Come  se ogni popolo che fa una sfoglia di farina non fosse in grado di capire autonomamente che dentro la sfoglia ci può mettere un ripieno di cose buone! Ed a proposit odi turchi, bsta un raviolo a forma di mezzaluna perché esso debba essere di origini turche! Ma siamo seri!, Se uno prende un bicchiere per tagliare dei dischi di pasta è ovvio che quando lo ripiega si trova con una mezzaluna; sarebbe ben dura ricavarne un crocifisso!
Il fatto che la cucina italiana e quella cinese conoscano i ravioli, non vuol certo dire che Marco Polo si fosse portata la ricetta in tasca! Anzi,  si può scommettere che si tratta  di scoperte del tutto autonome, così come quella dei maccheroni. Non è certo necessario un inventore solitario, alla Leonardo da Vinci, per scoprire che un pezzo di sfoglia di pasta rinsecchito può poi essere nuovamente ammollato e mangiato!
La cultura ottocentesca purtroppo era ancora legata ad una visione aneddotica della storia: la polvere nera l’aveva inventata il monaco Schwarz, le sostanze chimiche venivano scoperte per sbaglio da qualcuno che si era confuso nel prendere un vasetto, il sapone è stato inventato a Savona, ecc. ecc. E quando non si riesce a trovare un’origine documentata, ci si salva dicendo che senz’altro l’invenzione è cinese! Questo tipo di cultura bambinesca è rimasta purtroppo  ancora vivo nella gastronomia per la quale sembra impossibile credere che una ricetta possa essere nata in un popolo per sviluppo spontaneo e naturale delle proprie tradizioni ed idee  culinarie e così i vincisgrasssi non possono che derivare dal nome del generale Windisch Graetz, lo zabaglione deve essere arabo (è noto che ogni arabo tiene una bottiglia di vino in cucina!), ecc. ecc. Per non parlare poi di tutti quei casi in cui si crede che l’origine del nome serva ad individuare l’origine del prodotto; ad esempio la parola ketchup deriva (forse!) da una salsa malese ed è stata poi adottata come termine per indicare genericamente un tipo di salsa e perciò i malesi al ketchup americano, composto da tutt’altri ingredienti, hanno dato solo il nome e non la sostanza. Fatto del tutto irrilevante, se non fuorviante.
Tipico esempio di questo modo ridicolo di intendere la storia della cucina è ciò che si legge sull’origine della bistecca alla milanese e alla viennese, che, secondo tutti i testi, devono avere avuto sicuramente un’unica origine! La nozione che per fare un buon fritto è bene impanare prima ciò che si deve friggere, si perde nei secoli ed è già documentata nel libro di ricette italiane (1570)  di M. Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V, che alla ricetta LXVII ”Per cuocere il groppone e coda di castrato in diversi modi”, consiglia “e con essi rossi d’uovi battuti e pangrattato indorisi e friggasi nello strutto liquefatto”; la stessa cosa alla ricetta XXXV “Per soffriggere del petto di vitella”.
Pur trascurando lo Scappi, in libri di cucina italiani del 1820 si parla della “impanatura alla francese” e, per contro, in Francia si parla della “impanatura alla milanese” solo per segnalare che questa non contiene solo pangrattato, ma anche del parmigiano grattugiato; e prima dell’impanatura (citata in libri di cucina del 1856), erano note le pastelle per fritto (Charles Yves Cousin Cousin d'Avallon – Nouveau dictionnaire de cuisine,1826). Ne Il Cuoco francese del Signor De la Varenne, tradotto in italiano (seconda edizione)  nel 1781 si legge a pag. 31 “Carne fritta in più modi”,  prendere la carne, colorirla di sotto e di sopra con rossi d’uova, di poi spolverizzatela bene con mollica di pane e del sale meschiati insieme, di poi mettetelo nella padella dove vi sia dello strutto ovvero butirro caldo … ecc.”
Chissà perché però vi è sempre qualche inventore di panzane  il quale, senza alcuna prova documentale, scrive che l’impanatura deriva dagli arabi o persino dai mongoli (i quali, come è noto, nell’antichità usavano spedirci le loro ricette). Invece pare proprio che non ci sia bisogno di arrampicarsi sul teflon, ma che basti conoscere un po’ di libri di cucina antica e popolare per apprendere che fin da tempi immemorabili si era capito che il pangrattato su certi piatti arrostiti ne migliorava il sapore (si veda l’uso ancora odierno della chapelure nella cucina francese) e che da questo uso alla impanatura con uovo e pangrattato il passo è normale e alla portata di ogni casalinga.
Tornando ora alla cotoletta alla milanese e alla bistecca alla viennese, si legge un po’ ovunque che il generale Radetzky, dopo aver giustiziato qualche  patriota lombardo, si era talmente entusiasmato per la cotoletta alla milanese da portarne la ricetta a Vienna fra il 1848 e il 1857. Nessuno ha mai avuto l’acume di chiedersi perché egli, se era così entusiasta della cotoletta con l’osso, avrebbe dovuto introdurre a Vienna la bistecca senz’osso!
Togliamo subito dal piatto la sciocca idea che siano stati i milanesi a copiare dagli austriaci perché la cotoletta alla milanese è già presentata come ricetta usuale in un libro del 1857  (A.Paganini, Vocabolario domestico genovese-italiano, pag. 75), mentre l’odiato Radetzky, che arriva a Milano solo nel 1834, non sarebbe riuscito a diffondere la ricetta austriaca in Italia in così breve tempo neppure se avesse avuto Internet.
Neudecker nel suo libro del 1826, Bairischen Köchinn in Böhmen, presenta due ricette di bistecche impanate con pangrattato e il Wiener Kockbuch di Gartler, Hikmann, Zerner del 1831 (pag. 109 e 293) riporta  la ricetta delle Schnitzel fatte “da una fetta di carne della coscia del vitello, ben battuta, spruzzata con acqua e rivestita di pangrattato .. .da friggere bene in padella con strutto”.
Infine L. Kurth nel suo Kochbuch del 1861, pag.183, presenta la ricetta definitiva del Wiener Schnitzel.
Il massimo  della affabulazione fantastica si trova in un recente libro (1993) sulla cucina austriaca di Placutta ed altri,  Das österreichische Jahrhundertkochbuch, secondo cui “il piatto viene da Costantinopoli ove gli aristocratici avevano introdotto la moda di ricoprire la carne con foglia d’oro. L’idea piacque ai veneziani e così la ricetta, da Venezia a Padova e su, da Vicenza  per Ferrara, arrivò a Milano; poi a causa delle carestie medievali  e delle crisi economiche la foglia d’oro venne sostituita con l’impanatura di pane”! È chiaro che lo “studioso” che ha scritto queste cose, aveva letto che le cotolette devono essere ben dorate e poi …. ha perso il controllo dei propri neuroni.
Stendiamo una impanatura pietosa su questo tipo di cultura gastronomica e perdonatemi la digressione, ma essa era essenziale per far capire come ogni qualvolta si parla di origine di cibi e di influenze culturali, significa muoversi sul ghiaccio sottile e trovarsi a dover valutare informazioni che ben di rado sono storicamente documentate.
Ma torniamo al nostro Alto Adige e alla sua cucina. Quando si parla di influssi su di una cucina locale, non si può prescindere dal prendere in considerazione il livello sociale a cui scendere nel valutare la presenza di influssi e la loro provenienza. In una cittadina commerciale come Bolzano, mercato di incontro delle merci germaniche  con le merci del nord Italia o provenienti da Venezia,  è indubbio che nelle famiglie dei commercianti si mangiava in modo diverso che nelle famiglie dei contadini, un po’ per le esperienze fatte viaggiando, un po’ per la disponibilità di prodotti forestieri pregiati. In una cittadina come Merano, meta del turismo dei nobili austriaci di fine ottocento, è naturale che la cucina si attenesse ai gusti degli ospiti.  Però la ricaduta sul popolo può considerarsi nulla, così come nessuna ricetta dell’Alto Adige è mai stata esportata oltre i suoi confini.
Ad esempio, all’inizio del secolo scorso si era diffusa in Alto Adige la moda delle anguille marinate di Comacchio, dette in italiano anguillotti e localmente pronunziate anghilotti. Esse venivano ritenute indispensabile accompagnamento per bere la prima spillatura del vino novello e, al momento giusto, arrivavano a vagonate. Poi lentamente sono passate di moda e attualmente in poche famiglie si ricordano ancora come una specialità che veniva gustata in certi giorni di festa.
Per i motivi già anticipati si può affermare che l’unico piatto che ha oltrepassato di qualche  chilometro i confini del mondo di lingua tedesca, verso sud, è stato quello dei Knödel, ribattezzati in Trentino con il nome di canederli: palle formate di pane raffermo e uova, insaporiti con Speck, fegato, formaggio od altro e poi bolliti. Non si può però sostenere con certezza che essi fossero sconosciuti in Trentino perché  pare chi gli abitanti preistorici delle palafitte sul lago di Ledro, già mangiassero qualche cosa di simile (ma anche questa è probabilmente una delle solite fanfaluche: non basta certo trovare un po’ di farina mescolata a pezzettini di carne per affermare che è un residuo di canederlo; unica prova seria sarebbe un canederlo fossilizzato). Questione comunque del tutto priva di importanza perché compito essenziale della gastronomia non è di scoprire dove è stato mangiato il primo canederlo o l’etimologia del suo nome (assolutamente irrilevante perché è ovvio che una cosa a forma di sfera, venga chiamata con un nome che ricorda questo oggetto, pur essendone del tutto diverso il contenuto o la funzione), ma come si fa a preparare un buon canederlo e come si può utilizzarlo in cucina al meglio! Ogni specialità culinaria è il punto di arrivo di secoli di perfezionamenti che hanno portato a ricavare il meglio da prodotti poveri; è opera priva di senso andare a ricercare quali esperimenti del passato sono stati messi nel nulla dal  progresso dei metodi di cottura, dai cambiamenti del gusto, dai cambiamenti degli ingredienti, dalla dietologia.
Invece lo Speck, così tipico dell’Alto Adige, non è mai entrato nella cucina trentina, dove pur avevano gli stessi maiali e la stessa aria fina. Esiste un dolce come lo Zelten, specie di pandolce con noci e altra frutta secca, tipico dolce natalizio sia a Trento che a Bolzano, ma le rispettive ricette si sono così differenziate nei secoli da poter essere considerate autonome.
In tempi recenti la cucina dell’Alto Adige ha subito dei cambiamenti dovuti al turismo; quando in una regione si hanno oltre venti milioni di pernottamenti  all’anno di persone con scarsa cultura culinaria, è prevedibile che i ristoratori si organizzino per dar loro ciò che amano, specialmente se costa poco: ai turisti germanici piatti abbondanti di carne con abbondanti patate, Wienerschitzel e patate fritte, torte e cappuccini con la panna; ai turisti italiani spaghettate e polenta e, per chi vuole il tocco nordico, matriciane con lo Speck e carbonare con la panna liquida. Nel contempo i piatti della cucina locale si trovano sempre più di rado e sempre meno curati. In Alto Adige il turismo ha portato alla nascita di grandi cuochi, ricchi di inventiva e quindi più portati alla cucina innovativa che alla conservazione della tradizione e allo studio dei piatti poveri. Si mangia bene, ma spesso sono solo i mobili in legno di cirmolo a ricordare che ci si trova in Alto Adige.
Piatti illustri come la minestra d’orzo, il Gröstel di patate e carne o di patate e stoccafisso in padella, i ravioli di spinaci con sfoglia sottilissima (Schlutzkrapfen), la zuppa acida di trippa, la zuppa di vino bianco, i Krapfen fritti, bisogna andarseli a cercare nelle trattorie a gestione familiare.
Ormai l’industrializzazione dei prodotti alimentari ha reso una pura illusione la ricerca dei prodotti e sapori originari. In Alto Adige non vengono allevati  maiali e il mercato europeo della carne di maiale è quasi completamente nelle mani di tre o quattro distributori che non si fanno concorrenza; il che significa che Speck, prosciutti e altri salumi devono essere prodotti da una carne priva della qualità derivante da metodi di allevamento antichi. Le uniche possibilità per il preparatore sono quelle di variare un po’ i metodi di stagionatura e di evitare le stagionature artificiali forzate. Essi si scontrano però con i metodi aggressivi della grande distribuzione, sempre alla ricerca del massimo sconto, e soccombono rapidamente di fronte alla vecchia regola economica secondo cui il prodotto cattivo scaccia quello buono. Per il cliente moderno lo Speck “modello” è purtroppo quello un po’ molliccio e senza un filo di grasso e non quello stagionato almeno sei mesi, ben asciutto, e con almeno un centimetro di grasso. Vale a dire che la cucina sudtirolese ha esportato piuttosto un nome che un prodotto.
Analogo è il mercato dei latticini, invaso da fiumi di latte di ignota provenienza. In Alto Adige vi è una sufficiente  produzione di latte locale di montagna che assicura la possibilità di continuare a produrre i formaggi tipici di malga; il problema è che una volta il formaggio di malga veniva prodotto nelle malghe con lavorazioni manuali e sapori naturali di grande varietà; ora il latte viene conferito alle latterie sociali e il prodotto che si ottiene è standardizzato, secondo la volontà dei saggi europei: ottimo prodotto di grande qualità e igienicità che ha perso però molta della sua individualità.
Vengono prodotte anche grandi quantità di mozzarella e yougurt, ma è difficile considerarli prodotti locali! Il vantaggio della diffusa presenza di latterie sociali ha comunque portato alla produzione di formaggi freschi di alta qualità, meritevoli di un assaggio; ottimi quelli insaporiti con erbe profumate come il fieno greco o la trigonella cerulea (Melitoto). Questa erba aromatica e poco nota, perché coltivata  quasi solo in Svizzera e in Alto Adige è qui usata per dare un particolare e tipico invitante profumo ad alcuni tipi di pane, fra cui più noti quelli della Val Venosta  (Vinschgauer Fladen) e della Pusteria (Pusterer Breatln). Il nome dialettale è  Schabziegerklee perché nei pressi del lago di Zurigo viene usata fin dal medio evo per aromatizzare un formaggio detto Schabzieger (lett. formaggio di ricotta da grattugiare; il nome non deriva da Ziege, capra, ma da zwei, cotto due volte).
Tra i formaggi locali ha resistito molto bene il Graukäse (formaggio grigio) pressoché sconosciuto a sud dell’Alto Adige. È uno dei rari formaggi prodotti partendo da latte magro cagliato per acidificazione e non mediante caglio animale o vegetale; si ottiene un formaggio fresco con una percentuale di grasso  di circa l'1%; quasi una medicina per chi teme il colesterolo! Appartengono a questa categoria  alcuni formaggi del modo tedesco come lo Harzer tedesco, il Quargel austriaco;  può essere considerato il prodotto che ha preceduto il formaggio usuale poiché è cosa del tutto normale che il latte inacidisca e coaguli e produca, si potrebbe dire spontaneamente, una specie di formaggio. C'è voluta però (misteri della burocrazia europea!) una particolare autorizzazione perché si potesse fregiare del nome di "formaggio".
Un tempo era normale conservare il latte 15-20  ore o più in modo da far affiorare la panna e ricavarne così il burro; in questo periodo di tempo il latte iniziava ad inacidire  naturalmente e dopo un po' si formava la cagliata; essa veniva tagliata a dadi e messa in uno straccio per far colare il siero; essa veniva poi salata ed eventualmente insaporita con erbe officinali (di solito erba cipollina)
Attualmente, per produrre il Graukäse il latte magro, aggiunto di batteri acidificanti, viene lasciato a temperatura ambiente per una quindicina di ore fino a quando si rapprende; la cagliatura viene aiutata con un lentissimo riscaldamento di alcune ore e poi raccolta e un po’ pressata per far colare il siero.  Ciò che rimane viene pressato bene per asciugarlo e poi viene nuovamente sbriciolato e condito con sale e pepe; inizia quindi la stagionatura a temperatura ambiente per circa una settimana. Dopo di che viene messo in ambiente fresco per un periodo da un mese ad alcuni mesi.  Non si forma ovviamente alcuna crosta vera e propria e di solito viene venduto in blocchi ben confezionati. Pare si accompagni deliziosamente ad una tazza di cacao, ma in Alto Adige si preferisce mangiarlo con cipolla cruda, olio e aceto. E’ componente essenziale per i Knödel al formaggio.

Il vero salto di qualità dell’Alto Adige si è avuto nei vini; nel giro di pochi anni si è puntato con decisione alla qualità invece che alla quantità, ottenendo splendidi vini, troppo noti per doverne parlare qui.

(2010)


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