Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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Il Ministero ha l'obbligo di sostenere l'insostenibile? Altra bastonata dal Consiglio di Stato

L’OBBLIGO DI RICORRERE DEL MINISTERO DELL’INTERNO” di Angelo Vicari
Oramai l’obbligo di ricorrere avverso le sentenze “scomode” è diventato l’imperativo categorico del Ministero dell’Interno per giustificare anche i provvedimenti illegittimi di rifiuto o revoca delle licenze in materia di armi emessi da Prefetti e Questori.
Tale ostinata perseveranza la possiamo riscontrare nella recente sentenza del Consiglio di Stato del 22 ottobre 2014 (Sez. III, n. 5199).
Fatto ed diritto non si discostano molto da analoghi ricorsi che abbiamo già commentato su questo sito.
Il Prefetto emette decreto di diniego di rinnovo della licenza di porto di pistola nei confronti di un cittadino, già da tempo  in possesso del titolo, senza abusarne, sussistendo, peraltro, i requisiti soggettivi ed oggettivi che avevano giustificato il “dimostrato bisogno” per il rilascio della licenza.
Tale rifiuto viene motivato con la generica considerazione che “ le motivazioni poste alla base della richiesta non sostengono sufficientemente l’asserita necessità” di andare armato.
Il T.A.R. (Campania-Napoli, sent. n. 6100, del 23 giugno 2008) accoglie il ricorso dell’interessato, riscontrando nell’atto di rifiuto del Prefetto “difetto di istruttoria” e “insufficienza della motivazione”, siccome non è stata effettuata una “valutazione aggiornata sul fatto che il ricorrente era già in possesso da tempo del titolo e non aveva in alcun modo abusato” per cui è illogico che “la stessa situazione, che aveva indotto al rilascio del titolo” possa giustificare oggi il rifiuto.
Nonostante la riconosciuta illegittimità dell’atto del Prefetto, il Ministero dell’Interno presenta appello al Consiglio di Stato, motivandolo, come di consueto, con l’ampia discrezionalità riconosciuta all’Autorità provinciale di P.S. anche per il rinnovo della licenza in questione, non soggetta ad “automatismi”.
Dunque, come al solito, non solo il Ministero si sente investito di un presunto, inesistente obbligo giuridico di ricorrere contro tutte le sentenze “scomode” dei T.A.R., ma ripresenta, anche, l’unica stereotipata giustificazione dell’ampia discrezionalità spettante ai Prefetti e Questori, alla stregua di un salvacondotto per gli atti illegittimi.
Questa volontà di voler e/o dover ricorrere a tutti i costi sembra una prassi del Ministero per esorcizzare la paura di vedersi riconoscere dal giudice amministrativo che anche la P.A. commette errori.
Il Consiglio di Stato dichiara l’appello “infondato”, confermando la sentenza del T.A.R. .
In considerazione del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa sulla materia in questione, il Consiglio di Stato, pur riconoscendo le disposizioni particolarmente rigorose in merito alle licenze di polizia per le armi, nonché la “lata discrezionalità”, evidenzia che l’istanza di rinnovo del porto di pistola avrebbe dovuto essere “vagliata non già in astratto”, ma “in concreto”, con un complessivo giudizio/valutazione del possesso dei requisiti, “sulla base degli elementi e risultanze” degli atti.
Peraltro, il Consiglio di Sato condivide l’argomentazione del T.A.R. con la quale si rileva come dall’atto di rifiuto non emergano le “ragioni per cui la medesima situazione che a suo tempo aveva indotto al rilascio del titolo, pur non affermandosi che essa è mutata, da ora luogo in sede di rinnovo ad un provvedimento diametralmente opposto”.
Infatti, il Prefetto, nel proprio decreto, non fa alcun riferimento al possesso della licenza “per più anni”, ad “eventuali abusi” o a “eventuali condanne”, elementi che avrebbero consentito “un’aggiornata valutazione”, limitandosi, invece, ad “un’affermazione apodittica e generica che non dà conto delle suindicate circostanze”, omettendo, anche, di citare il parere favorevole dei Carabinieri.
Ma ciò che differenzia questa sentenza dalle altre analoghe riguarda il formale richiamo fatto al Ministero e al Prefetto.
 Infatti, il Consiglio di Stato censura il comportamento processuale dell’Amministrazione che “non ha ritenuto nemmeno di richiedere la sospensione della sentenza” del T.A.R., né ha provveduto a sollecitare l’udienza per la decisione dell’appello, provvedendovi solo nel 2012 (il ricorso in appello è del 2008). Inoltre, in questo lungo periodo di tempo, la Prefettura non “si è determinata ad adottare altro provvedimento” di diniego “istruito e motivato” secondo le indicazioni del T.A.R., come, invece, “avrebbe dovuto fare se non altro per ragioni di economia dell’attività amministrativa e di buona amministrazione”.
Riassumendo, dunque, un vero e proprio formale richiamo al modo di agire del Ministero e del Prefetto basato sul motto “…e noi ricorriamo!”, in contrasto con il principio costituzionale della “buona amministrazione”.
Una censura per un comportamento che sembra determinato solo dalla volontà di ricorrere contro tutte le sentenze “scomode”, senza prima aver attentamente e umilmente preso in considerazione il fatto che anche i Prefetti e Questori sono esseri umani e, in quanto tali, possono sbagliare!......
Ma dopo questo richiamo ci aspettavamo qualcosa di più dal Consiglio di Stato in merito alle spese di giudizio, liquidate, invece, con la generica formula “nulla si dispone per le spese in mancanza della costituzione della controparte”.
Ci saremmo aspettati una condanna del Ministero non solo alle spese di giudizio, ma anche ad un risarcimento simbolico nei confronti del cittadino che si è dovuto sobbarcare le spese dell’avvocato, siccome la decisione dell’appello si fonda su “ragioni manifeste” e “orientamenti giurisprudenziali consolidati” (art. 26 D.L.vo n. 104/2010).
Forse, per il futuro, la condanna alle spese, nonché al risarcimento del cittadino potrebbero essere la giusta medicina per far guarire il Ministero dalla sindrome dell’obbligo di ricorrere.
Firenze 5 novembre 2014                   Angelo Vicari

Si veda qui una precedente analoga sentenza

Si veda qui altra precedente analoga sentenza

 


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