Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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EXA 2007 - La catalogazione delle armi da sparo - È iniziato un processo involutivo?

Per comprendere gli anomali sviluppi del lavoro della Commissione Consultiva per le armi occorrere ripercorrerne la storia.
All’inizio degli anni settanta si sentiva impellente il bisogno di una ridefinizione della nozione di arma da guerra in quanto la dottrina ufficiale della burocrazia e della giustizia insisteva supinamente sulla assurda teoria, nata più nelle menti dei marescialli che degli esperti, priva di ogni appiglio normativo, secondo cui il massimo calibro consentito per le pistole semiautomatiche  era il 7,65 Br. mentre per i revolver non vi era limite di calibro perché non più in uso presso gli eserciti. Salvo poi affermare che il revolver del 1889 (arma antica!) e la baionetta erano armi di tale particolare potenza ed efficienza, da dover essere vietati a chiunque. Nel campo delle armi lunghe si continuavano a vietare moschetti di ordinanza  a ripetizione manuale, mentre erano consentite potenti carabine semiautomatiche da caccia.
Ciò poneva l’Italia al di fuori del mercato internazionale e limitava in modo irrazionale le possibilità di difesa e sport del cittadino.
Nel 1974 uscì sulla Giustizia Penale un mio ampio studio sull’argomento, tecnicamente documentato, ed indubbiamente esso dette l’impulso decisivo alla questione.
Il Parlamento nel 1975 dette una nuova definizione di arma da guerra, molto  soddisfacente, ma poi stravolta da chi era ancora aggrappato a concezioni ottocentesche e non voleva modificare il vecchi assioma  “se è arma dei militari =  è arma potente” in quello nuovo secondo cui un’arma era da guerra solo se avente per tipologia caratteristiche tali di potenza offensiva da renderla attualmente appetibile per gli eserciti moderni.
Contemporaneamente gli uffici ministeriali che studiavano la legge  si inventavano un meccanismo unico al mondo: una commissione apposita per formare un elenco delle armi che non sono considerate da guerra. Per capire l’allucinante astruseria della invenzione si consideri che:
- il problema di definire il limite fra arma comune ed arma da guerra si pone solo per le pistole e per i fucili a canna rigata nei calibri sportivi e venatori, non certo per i missili e le mitragliatrici;
- in altri paesi europei il problema era stato risolto con sole tre righe in cui, senza cercare inesistenti parametri, si affermava semplicemente che tutte le carabine e tutte le pistole sono armi comuni salvo quelle con funzionamento automatico (principio fatto proprio dal legislatore italiano con la legge sul materiale di armamento, ma che il Ministero dell’Interno si è semplicemente rifiutato di applicare).
- era cosa insensata catalogare le armi consentite (decine e decine di migliaia) quando bastava catalogare qualche centinaio di armi da guerra. Anche se si rifiuta il principio sacrosanto della legge sull’armamento, che senso ha catalogare migliaia di pistole in piccolo calibro, che senso ha catalogare migliaia di revolver,  i quali per definizione non possono mai essere da guerra, che senso ha catalogare migliaia di fucili che per il calibro o la meccanica non sono mai stati da guerra neppure in passato?
La Catalogazione delle armi non trova alcun modello nelle altre legislazioni europee e potrebbe essere visto come un ostacolo illegittimo alla libera circolazione delle merci nella comunità europea. Il privato infatti non può acquistare all’estero armi, pur se chiaramente da caccia e sportive, perché non può importarle in Italia senza averne chiesto la catalogazione, cosa che comporta sovente costi superiori al valore dell’oggetto. È prevedibile che lo Stato italiano possa essere costretto ad eliminarlo dalla nostra legislazione.
Neppure pare molto ragionevole il sistema per cui chi inventa o intende importare qualche cosa di nuovo, deve farlo sapere con qualche mese di anticipo ai concorrenti, che magari siedono proprio nella commissione e possono copiare o mettere bastoni fra le ruote.

Ma i problemi non si fermavano qui  perché si doveva decidere quali armi catalogare e che cosa si intende per prototipo o modello di arma.
Il primo comma dell’art. 7 L. 110/1975,  nel testo originario recitava: è istituito, presso il Ministero dell'interno, il catalogo nazionale  delle armi comuni da sparo delle quali è ammessa  la produzione o  la importazione definitiva. Esso quindi prevedeva  (sia ben chiaro, senza affatto rendersi conto della difficoltà pratiche dell’operazione, visto che solo per le pistole cal. 6,35 si contano quasi 6.000 modelli!) la catalogazione di tutte le armi comuni da sparo (a canna liscia, a canna rigata, lanciarazzi, ad aria compressa, repliche ad avancarica, ecc.) già esistenti in Italia nonché di quelle di nuova produzione o importazione. Questa soluzione si imponeva sia in base alla lettera della legge (il comma due regola ovviamente solo le armi di nuova produzione o importazione, ma non dice affatto che non devono essere catalogate le altre!), sia per evitare situazioni totalmente assurde: si consideri che non catalogando le armi di vecchia produzione già detenute in Italia, si finiva per catalogare solo quelle per cui veniva casualmente richiesta l’importazione con gravi conseguenze:
- in Italia vi sono in circolazioni armi identiche, alcune con il numero di catalogo (quelle importate), altre senza (quelle già detenute), con grave incertezza in caso di controllo e senza che abbia il minimo senso logico che alcune ne siano casualmente munite;
- mentre per le armi di nuova produzione è in genere l’importatore a sobbarcarsi i costi della catalogazione, per le armi di vecchia produzione si impedisce di fatto al cittadino di importarle perché i costi per la catalogazione superano spesso il valore dell’arma;
- si lasciano molte armi in un clima di incertezza giuridica, non potendosi stabilire se esse siano o meno da guerra; è vero che il ministero ha emanato degli elenchi di classificazione di alcune di queste armi, ma questi pareri del ministero non erano certo idonei ad attribuire in modo definitivo la qualifica di arma comune.
- sovente è estremamente difficile stabilire se un’arma non catalogata sia stata alterata o meno, non essendo stabilite ufficialmente le sue caratteristiche; il che vuol dire che un’arma non catalogata può essere alterata più facilmente di un’arma catalogata.
Come detto, una operazione del genere era impegnativa, ma avrebbe potuto essere risolta catalogando le armi per categorie; ad es. “tutte le pistole in cal 6,35 e 7,35 sono armi comuni da sparo”; invece si è scelto di limitare la catalogazione alle sole armi di nuova produzione o importazione, così che un’arma anteriore al 1979 era priva di catalogo se già in Italia, riceveva un numero di catalogo se importata!

Subito ci si rese anche conto che la catalogazione di certe armi, come i fucili a canna liscia, era un’attività palesemente priva di senso logico, visto che tali armi non possono mai essere da guerra o tipo guerra (salvo un improbabile semiautomatico a raffica!) e che esse sovente sono prodotte in modello unico da valenti artigiani. Perciò l’art. 17 del DM  16 agosto 1977, rimandava l’inizio delle operazioni di catalogazione per i fucili a canna liscia e le repliche di armi antiche ad avancarica, in attesa dell’emanazione di apposite norme, stabilendo che per esse continuavano a restare in vigore  le disposizioni transitorie dell’art. 37 della legge 110/1975. Solo nel 1980, con DM 21 aprile 1980, venivano emanate le necessarie disposizioni e, con DM 2 marzo 1982, le disposizioni per l’aggiornamento del catalogo. Non veniva però fissata alcuna data per la pubblicazione del Catalogo (ma solo quella dell'inizio delle operazioni, fissata al 1° ottobre 1983) e quindi non scattava la fine del regime transitorio previsto nel citato art. 37. Subito dopo, la L. 16 luglio 1982 n. 452 aboliva la catalogazione delle armi in questione. Quindi, in concreto, le armi ad anima liscia e le repliche di armi ad avancarica non sono mai state soggette all’obbligo di apporre il numero di catalogo e per esse non è mai scattato l’obbligo di apporre altri segni distintivi diversi dal numero di matricola.
Attualmente, quindi, il primo comma del citato art. 10 prevede la catalogazione solo per  le armi comuni da sparo, con  esclusione dei fucili da caccia ad  anima liscia e delle repliche di armi ad avancarica. Va tenuto presente che si parla di armi da caccia impropriamente, per il fatto che quando venne emanato il DM 16 agosto 1977 non esisteva né la norma che vieta certi calibri per la caccia né la categoria delle armi sportive e dei fucili a canna liscia sportivi e quindi ogni arma lunga veniva considerata idonea ad usi venatori; è però del tutto pacifico che l’esenzione opera anche per i fucili sportivi a canna liscia che, del resto, non è possibile distinguere da quelli da caccia in base a caratteristiche sostanziali. L’esenzione opera perciò per tutti i fucili a canna liscia, salvo una improbabile arma avente caratteristiche tali da renderla inidonea ad usi venatori.
È appena il caso di rilevare che l’inutilità della catalogazione per le canne lisce  e le repliche rilevata dalla L. 1982/452 poteva e dovere essere estesa, senza alcun problema,  ai  revolver e ai fucili da caccia a canna rigata in determinati calibri, eliminando una situazione che provoca solo danni ai cittadini ed ai produttori.

Circa la nozione di prototipo o modello di arma la legge 110 si limitava a dire che “confezioni artistiche od artigianali non alterano il prototipo se rimangono invariate le qualità balistiche, il calibro e le parti meccaniche di esso”. Questa indicazione è del tutto insufficiente a delimitare il problema.
La nozione di modello di arma non è affatto univoca e varia a seconda dei tempi e dei produttori. Lo stesso modello può essere in calibri diversi (es. la Beretta 34 in cal.  9 corto e  7,65 Br.) o può aver subito migliorie meccaniche nel tempo; spesso la creazione di un nuovo modello può corrispondere più ad esigenze commerciali che tecniche. Però sotto il profilo del collezionismo di armi storiche uno stesso modello di arma può distinguersi per altre caratteristiche, come ad esempio il fatto di essere stato prodotto per certi Stati con modifiche oppure con modifiche di particolari non rilevanti su piano tecnico (si pensi ai numerosi tipi di Mauser K98).
Il voler distinguere i modelli in base al calibro era ed è una solenne stupidaggine; uno volta accertato che una carabina a ripetizione manuale (o un revolver) sono per definizione armi comuni, che senso ha valutare se esse sono comuni in tutti i 130 calibri circa, attualmente in commercio? La regola è che chi produce una carabina da caccia, la produce in molti calibri a seconda delle esigenze dei clienti. Per quale motivo si deve catalogare l’arma in venti modelli diversi? La stessa cosa per i revolver: una volta stabilito che un revolver è arma comune, che cosa importa che esso sia in cal .38 o in cal. 38 special o .357?
Ripeto: il Catalogo non è una banca dati per consentire di individuare le armi importate in Italia o qui prodotte, ma serve esclusivamente per  stabilire se un’arma è comune o da guerra.
Purtroppo sul punto si è instaurato un meccanismo perverso dovuto al fatto che la legge 110 venne fatta da incompetenti burocrati. La legge infatti stabilì delle limitazioni al numero di armi detenibili e stabilì che i collezionisti non potevano detenere più di un esemplare per ogni modello di arma; limitazione questa contraria proprio allo spirito del collezionista di armi   che non è un raccoglitore di esemplari, come chi raccoglie farfalle o bustine di zucchero, tutte diverse l’una dell’altra, ma è uno studioso interessato, ad es. ad avere il maggior numero possibile di Mauser K98 per studiarne le minime varianti,. e che se ne frega di tutte le altre armi. Da ciò l’interesse dei commercianti di moltiplicare  artificiosamente il numero di modelli. La Commissione  li ha seguiti su questa strada e così siamo arrivati ad aver ben oltre 16.000 modelli di armi catalogate.
Su questa strada si è arrivati a sofisticherie da sesso degli angeli distinguendo se un’arma è in acciaio normale o inossidabile, se vi è stecher o meno, se è vi o meno freno di bocca o rompifiamma, se vi è un centimetro in più o in meno di canna; cioè il trionfo della burocrazia applicata alle armi, senza alcuna giustificazione razionale o pratica, ma solo per creare vortici di carte con spese e disagi per i cittadini. In un caso, paragonando una SAN Sport Europa e un SIG550 PE, muniti di calcio assolutamente identico, la commissione ha concluso che il calcio della SAN, con bottone di sgancio bloccato con resina era idoneo e catalogabile mentre invece il calcio  del SIG, saldato, non poteva essere catalogato perché ripristinabile.
Si è arrivati persino alla sciocca astruseria di voler indicare le scritte che possono comparire sull’arma, a seconda dello Stato od arsenale in cui essa è stata prodotta, ignorando che esse sono del tutto irrilevanti ai fini della classificazione ed importazione; per le armi di ordinanza non si può certo pretendere di attribuire un significato alla fabbrica produttrice … spesso segreta! Vi sono così in Catalogo armi identiche, ma con numero di catalogo diverso perché prodotte da fabbricanti diversi.
Sono cose che, a torto od a ragione, fanno gridare allo scandalo e che diffondono la convinzione che in commissione si guardi più alle lobby e alle amicizie che non alle norme di legge e alle nozioni tecniche.
Questa soluzioni sono anche in contrasto con la legge 110 la quale, nel momento in cui dice che elaborazioni artistiche o artigianali non modificano il modello di base, pone anche il principio per cui il modello rimane unico ogni qual volta non siano modificate le qualità balistiche, il calibro e le parti meccaniche di esso. Anche se non è detto (per insipienza dei giuristi i quali amano giocare con le parole convinti che esse bastino per acchiappare la realtà) che queste modifiche devono avere una certa consistenza, per un tecnico è del tutto chiaro  che non sono certo pochi centimetri di canna in più o in meno che cambiano le caratteristiche balistiche di un’arma e che non è una fresatura in una canna che trasforma un’arma comune in arma da guerra!
Ripeto: la Commissione ha il compito di individuare il modello di arma catalogato in base alle nozioni storiche e tecniche che a livello mondiale individuano un’arma; non certo in base ad accessori o a particolari irrilevanti.
Anche sul concetto di “parti meccaniche” di un’arma si è infatti  insistito sul percorso erroneo (e purtroppo battuto dalla Cassazione, tratta in inganno dai soliti periti improvvisati i quali, sapendo smontare qualche arma, credono anche di essere esperti di diritto delle armi) per cui ogni variazione alle parti in metallo è una variazione della meccanica. Nulla di più sbagliato: una filettatura, la presenza o meno di un attacco per cannocchiale o per altro accessorio non hanno nulla a che vedere con la meccanica di un’arma. Sarebbe come confondere la carrozzeria di un’auto con il suo motore o gli organi di cambio e frenatura. Meccanismo, dicono i dizionari, è il complesso di parti che compongono una macchina, cioè di quelle parti che contribuiscono al movimento, al funzionamento della macchina. Il sistema di scatto, di ripetizione, di chiusura, di alimentazione costituiscono le parti meccaniche di un’arma, non certo un gancio incollato da qualche parte per sostenere qualche cosa, poco importa quale! E ogni cosa che si attacca, che si aggiunge ad un’arma già perfettamente funzionante anche senza di essa, non è una parte, ma un accessorio, come si ricava del resto chiaramente dalle convenzione di Strasburgo che, ad esempio, assimilava in via eccezionale i silenziatori alle parti di arma. Anche la convenzione ONU del 31 maggio 2001, art. 3 lett, b, ha fatto una eccezione solo per silenziatori, così confermando che ogni altro accessorio non è mai considerato parte di arma.

Questa situazione è stata aggravata dal fatto che né la commissione né il ministero hanno mai voluto mettere nero su bianco i criteri da seguire per stabilire se un’arma è comune o da guerra, esigenza essenziale per poter applicare la legge.
Per l’art. 7 della legge 110/1975 la catalogazione di un’arma come arma comune da sparo è definitiva. Catalogare un’arma significa riconoscere che un certo calibro è civile e non militare, che un certo tipo di alimentazione e ripetizione non sono militari, che un serbatoio con un certo numero di colpi è irrilevante. Tutti principi che si ricavano dalla catalogazione e che a loro volta hanno il carattere della definitività per due motivi: sul piano normativo perché lo dice la legge, sul piano amministrativo poiché la pubblica amministrazione deve operare senza creare disparità di trattamento e senza ledere diritti acquisiti.
Purtroppo i funzionari addetti al settore armi del Ministero cambiano molto spesso e sanno ben poco di armi; i commissari vengono sostituiti in buon numero ogni cinque anni ed è sufficiente leggere i verbali delle sedute per constatare che essi navigano costantemente nella nebbia senza sapere da dove sono partiti (perché  manca chi li può informare e le regole non sono mai state scritte) e dove devono arrivare (perché in commissione non vi è alcun giurista esperto e che si intenda anche di armi il quale possa interpretare le norme in modo sensato). Non è il caso di elencare centinaia di esempi, ma ricordo quello emblematico dello Spas 12 della Franchi, fucile semiautomatico da difesa a canna liscia, rispetto a cui l’unico dubbio era se andava catalogato o meno, e che la commissione dichiarò da guerra… principalmente in base all’aspetto eccessivamente aggressivo, cioè perché assomigliava ad un’arma da guerra!
Altro esempio di sbandamento mentale della commissione, che ormai si protrae da vent’anni, è dato dal numero massimo di colpi che deve avere un fucile semiautomatico.
All’inizio parve del tutto ovvio e indiscutibile che un’arma nata come arma da caccia, per cui non si poneva neppure il dubbio che potesse essere da guerra, poteva avere il caricatore previsto dal produttore; per le armi ex ordinanza, per cui si riconosceva essere venuto meno il requisito della destinabilità all’uso militare, era altrettanto ovvio che la capacità del caricatore originario diveniva del tutto irrilevante; il problema si poteva al massimo porre per certi fucili di assalto automatici, prodotti in versione civile, e rispetto a cui era necessario differenziare il caricatore civile da quello militare. Ma è chiaro che il problema non era di numero di colpi, ma di evitare l’intercambiabilità fra i due caricatori.
Ebbene, la commissione ha proceduto per vent’anni a casaccio, pretendendo per ogni arma di indicare il numero massimo di colpi consentito, variabile, a seconda del clima e delle amicizie di chi chiedeva la catalogazione, da 5 a 15 colpi! Di recente qualche bella mente ha persino proposto di limitare il numero dei colpi del caricatore a 5, per ogni tipo di arma lunga e di applicare la regola anche  retroattivamente. Miglior esempio non potrebbe trovarsi di esercizio abusivo di potere, con totale disprezzo della realtà giuridica, con norme di legge ridotte a strame.
Il pensiero dominante della Commissione sembra attualmente quello di moltiplicare inutilmente i modelli di arma in relazione a particolari del tutto irrilevanti ai fini della sicurezza pubblica (chi al ministero si ricorda ancora  che questo non era lo scopo e la funzione del Catalogo?), ma che servono solo a produrre costi sociali aggiuntivi (la burocrazia è uno dei costi più pesanti della nostra economia, forse ancor prima dell’energia). Si veda, ad esempio emblematico, la “Circolare 557/PAS.50-235/E/04 del 30 ottobre 2006 - Procedura per l’iscrizione in nota a Catalogo di canne intercambiabili dotate di freno di bocca integrale” in cui ci si inventa che:
- è possibile realizzare canne intercambiabili dotate di freno di bocca solo se destinate a carabine a ripetizione semplice ordinaria con chiusura ad otturatore girevole - scorrevole;
- le canne intercambiabili devono avere la stessa lunghezza e lo stesso calibro di quelle originali;
- il freno di bocca deve essere realizzato con la sola foratura della canna, senza possibilità, quindi, di applicarlo tramite filettatura o incastro.
Ma quale norma di legge attribuisce alla Commissione il potere di dire su quale arma comune posso applicare il freno di bocca? Perché mai non dovrebbe essere applicato ad una carabina semiautomatica cal. 22? O vi è il solito esperto il quale ritiene che la carabina potrebbe diventare da guerra? E quale stupidaggine è che la canna con freno di bocca deve essere identica a quella senza freno? Le canne intercambiabili  sono per definizione diverse fra di loro.
Quanto poi al requisito che il freno di bocca non deve essere amovibile, si finisce nell’assurdo kafkiano. Cerchiamo di capire il pensiero della circolare: secondo essa è possibile applicare su di un’arma una canna intercambiabile, senza attribuire un nuovo numero di catalogo, ma in forza di semplice nota in calce alla scheda di catalogazione originaria, purché si tratti di canna identica (stupidaggine, si ripete, in contrasto con tutto il precedente orientamento) e purché il freno sia ricavato per fresatura. Il che vuol dire, se la logica non è acqua, che se un produttore fa una canna intercambiabile identica a quella catalogata, ma con una filettatura all’estremità … quella canna deve ottenere un separato numero di catalogo!! Il che vuol dire che se poi uno ci avvita un freno di bocca si trova a detenere un’arma non catalogata.
Un tempo si passava la vita rinchiusi per aver scritto molto meno!
Basta leggere uno qualsiasi dei verbali delle sedute della Commissione per rendersi conto che molti commissari dicono la prima cosa che viene loro in mente, senza alcuna competenza, senza approfondimento, senza essersi informati. Colpa anche della ibrida composizione della Commissione che dovrebbe dare pareri al ministero, ma  che poi, per la prevalenza dei componenti di nomina o vocazione ministeriale, finisce solo per ratificare i mutevoli desideri dei dirigenti del ministero.
Ripeto: la Commissione non ha alcun potere di stabilire come le armi devono essere prodotte ma deve esclusivamente stabilire se un modello di arma è comune o da guerra in base esclusivamente alle norme di legge. Cosa molto difficile se in trent’anni la Commissione non ha mai avuto la capacità di dire quali regole intende applicare. Cosa grave perché ha impedito al cittadino leso nei suoi diritti di ricorrere al giudice per  farne rilevare la illogicità. Cosa preoccupante perché ha istillato nelle menti dei commissari di PS che il diritto delle armi sia una cosa vaga ed incontrollata, in cui  ognuno può sparate la prima sciocchezza che gli viene in mente.

Eppure la realtà attuale è che la Commissione si sta arrogando il compito  di dettare regole su come le armi comuni da sparo devono essere costruite! Dai verbali risulta che i commissari si preoccupano dell’aspetto dell’arma, come se la legge avesse attributo loro il compito di escludere quelle cattive, che si preoccupano se l’arma è occultabile o meno, dimenticandosi che è la legge che stabilisce le dimensioni minime di un’arma lunga e che una pistola è per sua natura occultabile. Tutto questo sotto diretto influsso del ministero il quale, in un caso recente, chiaramente ha scritto che è stata valutata, inoltre, l'esigenza di dover adottare, in relazione alle attuali condizioni dell'ordine e della sicurezza pubblica, ogni cautela necessaria ad evitare la circolazione di armi corte in grado di impiegare munizioni che presentano, nelle comuni versioni di caricamento, elevata capacità lesiva e la possibilità di essere agevolmente mutate in armi da guerra. Ma quando mai la legge attribuisce questo potere al ministero? La legge (scritta apposta per porre un limite alle stravaganze burocratiche, come dimostra la circostanza che inizialmente il parere tecnico della commissione era vincolante!) ha stabilito che può essere vietata solo la circolazione delle armi da guerra e l’elevata capacità lesiva di una cartuccia da caccia è una di quelle idiozie che si sperava di non leggere mai più dopo il 1975. Ma è anche possibile che al ministero pensino di vietare persino le Brenneke perché, è lampante, un semiautomatico a canna liscia da caccia può sparare palle con elevata capacità lesiva (lo possono testimoniare intere stirpi di cinghiali che pesavano il triplo di un soldato) e con qualche piccola modifica spara a raffica e diventa perciò da guerra!!

A questo punto non credo che sarà difficile per chiunque concludere che:
- Si deve prendere atto che il 99% delle catalogazioni sono perfettamente inutili e dannose e quindi si deve abolire la loro catalogazione, così come è stato fatto per i fucili a canna liscia e per le repliche ad avancarica (ora quasi tutte persino liberalizzate).
- Si deve prendere atto che la definizione data dalla legge sull’armamento del 1990 è del tutto coerente con le catalogazioni eseguite, salvo il palese errore del ministero in materia di pistole in calibro 9 parabellum; quindi è venuta meno la necessità di una commissione la quale avrebbe l’unico compito di stabilire se un’arma è automatica o semiautomatica!
- La commissione deve essere autonoma dal Ministero ed  in grado di fornire pareri sensati ed indipendenti, oppure se ne può fare tranquillamente a meno.
- Se la commissione continua ad esistere deve rientrare nei precisi limiti stabiliti dalla legge:
a) distinguere fra armi da guerra e armi comuni, secondo norme di legge;
b) individuare la nozione di modello;
c) astenersi dallo stabilire come vanno costruite le armi comuni.


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