Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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Trattato del diritto della caccia - Caccia e atteggiamento di caccia

La LC inizia stabilendo il principio generale (art. 1) secondo cui la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale; affermazione di puro principio che, in sostanza, si limita a stabilire la preminenza dello Stato nella gestione del patrimonio faunistico che può avvenire solo in forza di norme di legge. La norma prosegue poi stabilendo che l'esercizio dell'attività venatoria è consentito purché non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole. Ciò significa che la caccia non può essere esercitata in modo da porre in pericolo la conservazione di una specie e che il cacciatore non deve arrecare danni agli agricoltori.
Si noti l’uso della espressione “danno effettivo” che indica come la legge non si preoccupi di danni teorici, di danni ipotetici, di lesione del modo di vedere dell’agricoltore, ma solo di comportamenti che provochino un concreto danno patrimoniale. Non sarebbe stato male se il legislatore si fosse preoccupato di fare un cenno anche alla funzione della caccia di evitare che siano i selvatici a recare danno all’ambiente (cervi che mangiano giovani piante, nutrie che traforano gli argini dei fiumi, cormorani che spopolano specchi d’acqua dai pesci, storni che concimano i viali delle città) o agli agricoltori (cinghiali che devastano i campi, carnivori che trovano meno faticoso acchiappare agnelli piuttosto che correre dietro ai caprioli, storni che si abbattono a migliaia su di un raccolto).
Si tratta quindi di stabilire che cosa si intenda per esercizio dell’attività venatoria il quale altro non è che ciò che la lingua italiana chiama caccia! Termine che è meglio conservare, altrimenti non si capisce più bene chi sia il misterioso cacciatore citato in altri articoli!
Non dimentichiamo che vi sono norme internazionali e leggi costituzionali, come gli Statuti delle Regioni speciali, che espressamente prevedono l’istituto della caccia, la quale non può essere fatta sparire cambiandole nome o con altro gioco delle tre carte.
La LC 1931, all’art. 2, ne aveva fornito una buona definizione: È considerato effettivo esercizio di caccia e di uccellagione, ai sensi della presente legge, non solo il reale esercizio di atti di caccia o di uccellagione, ma altresì il vagare o il soffermarsi, senza giustificato motivo, con armi, strumenti, ordigni o mezzi in genere atti alla caccia o all'uccellagione in attitudine tale da dimostrare l'intenzione di ricercare o attendere la selvaggina per ucciderla o catturarla.
La definizione venne migliorata con la LC 1939, art. 1: Costituisce esercizio di caccia ogni atto diretto alla uccisione o alla cattura di selvaggina mediante l'impiego di armi, di animali o di arnesi a ciò destinati. È considerato, altresì, esercizio di caccia il vagare o il soffermarsi con armi, arnesi o altri mezzi idonei, in attitudine di ricerca o di attesa della selvaggina per ucciderla o per catturarla. Agli effetti della presente legge è considerato esercizio di caccia anche l'uccisione o la cattura di selvaggina compiute in qualsiasi altro modo, a meno che esse non siano avvenute per forza maggiore o caso fortuito.
La LC vigente, come prevedibile, ha notevolmente peggiorato la definizione. Recita l’art. 12: Costituisce esercizio venatorio ogni atto diretto all'abbattimento o alla cattura di fauna selvatica mediante l'impiego dei mezzi di cui all'articolo 13. …. È considerato altresì esercizio venatorio il vagare o il soffermarsi con i mezzi destinati a tale scopo o in attitudine di ricerca della fauna selvatica o di attesa della medesima per abbatterla.
Il legislatore si è “incartato” con le parole, perdendo la precedente incisività.
L’art. 12 è intitolato esercizio dell’attività venatoria, ma poi questa dicitura è abbandonata e si parla solo di “esercizio venatorio”; il che vuol dire maltrattare la lingua italiana perché “esercizio venatorio” può significare una esercitazione oppure un negozio per cacciatori, ma di certo non significa svolgere un’attività; sarebbe come se il fatto di respirare venisse chiamato “esercizio respiratorio”! Chissà perché (ma lo si sa benissimo!) agli estensori faceva poi schifo la semplice e chiara parola caccia, usata dall’uomo da quasi un milione di anni.
Sbagliata anche la formulazione che fa riferimento allo impiego dei mezzi di cui all'articolo 13 il quale stabilisce quali sono i mezzi di caccia consentiti; se si interpretasse la norma come è scritta si dovrebbe concludere che non costituisce caccia il bracconaggio con mezzi vietati! Chi ha scritto la norma doveva dire semplicemente che costituisce esercizio di attività venatoria ogni atto diretto all'abbattimento o alla cattura di fauna selvatica perché ciò che importa non è il mezzo ma il risultato; se un cacciatore riesce a catturare un selvatico con le mani (ad esempio nuotando sott’acqua e acchiappando un’anatra per le zampe oppure afferrando un animale rintanatosi) non vi è alcun uso di mezzi di caccia, ma non vi è dubbio che si è di fronte ad un atto di cattura (il quale presuppone che ad un certo punto si mettano le mani sul selvatico) e quindi di caccia, come correttamente detto nella legge del 1939. È sbagliata anche l’ultima frase perché punisce chi è in attitudine di caccia per abbattere ma non chi lo è per catturare!
Se ci si attiene alla lettera della legge si deve intendere che si ha caccia in due ipotesi:
a) quando si pongono in essere atti immediatamente diretti ad abbattere o a catturare selvatici mediante mezzi di caccia; quindi lo sparare, il tendere reti, lacci o trappole; deve trattarsi di comportamento non equivoco che dimostri di per sé stesso che si sta cacciando; attività che sono diverse, ad es. da quella di trasferirsi da un posto all’altro con un’arma o di attendere o ricercare selvatici.
b) quando si è in possesso di mezzi di caccia e si tiene un atteggiamento che indica l’intenzione di abbattere selvaggina; perciò non si ha caccia se si gira per la campagna con reti o con trappole atte a catturare animali, fino al momento in cui non si tendono.
Il comma 4 dell’art. 12 si preoccupato di stabilire che non è punibile l’uccisione di animali per caso fortuito o per forza maggiore; precisazione inutile perché già il termine abbattimento di una animale implica sempre una condotta finalizzata a tale scopo, volontaria e consapevole, come precisato nelle leggi precedenti.
Il comma 7 sottolinea che non costituisce esercizio venatorio il prelievo di fauna selvatica ai fini di impresa agricola.
Fatte queste premesse, la situazione è comunque sufficientemente chiara se ci si basa sulla logica delle cose e non sui maldestri tentativi dei giuristi di acchiappare la realtà con mezzi verbali che non padroneggiano.
In fin dei conti il problema è semplice: si tratta di stabilire quando un soggetto si trova in una situazione che lo fa individuare come cacciatore in attesa o alla ricerca di prede, piuttosto che come un cacciatore che semplicemente si sposta da un luogo ad un altro, oppure quando si tratta di distinguere il cacciatore dallo escursionista o dallo zoofilo appostato solo per studiare gli animali. È una valutazione che va fatta caso per caso in relazione a tutti gli elementi utili da valutare congiuntamente: a) ai luoghi ed alla esistenza di selvatici; b) al possesso di mezzi idonei, in relazione ovviamente ai selvatici esistenti nel luogo; c) al comportamento del soggetto.
Vediamo i singoli elementi:
- Nel luogo ove si trova il soggetto deve esistere la concreta possibilità di catturare od abbattere animali; se un tizio mette le trappole per orsi in un campo da calcio è ovvio che potrà forse catturare l’arbitro, ma che non potrà mai prendere orsi. È possibile però trovarsi in atteggiamento di caccia anche entro un luogo chiuso, ad esempio se si cerca di catturare un capriolo entrato in un capannone o se ci si apposta alla finestra per sparargli quando esso pascola nel prato sotto casa. Sono situazioni estreme in cui sarà poi difficile provare i fatti, ma quando si ragiona in diritto bisogna sempre distinguere l’ipotesi astratta, da quella concreta (una prova che sembra impossibile da raggiungere, può essere fornita, ad esempio, dalla confessione del responsabile).
In un campo di tiro a volo o in un poligono si può essere legittimamente armati e si può legittimamente sparare in ogni tempo, ma se invece che ai piattelli si spara ai piccioni in transito, si ha esercizio di caccia; nell’orto si può andare con il fucile o ci si può appostare di notte per spaventare i ladri; però se ci si va di giorno e ci si apposta in modo da controllare il ciliegio con i merli, o ci si va di notte per aspettare la faina, si ha esercizio di caccia. Non sarebbe poi male se i giudici ricordassero l’aurea regola costituzionale per cui nel dubbio non si può condannare.
- Il possesso di mezzi idonei è poi essenziale; come detto i mezzi devono essere idonei in relazione ai selvatici esistenti; un tizio che va in un prato ove al massimo vi è qualche uccellino, portandosi un fucile express da elefanti, forse vuol provare il fucile, forse vuol sparare ad un suo nemico, forse aspetta gli extraterrestri, ma di certo non vuole sparare ai passeri. In alcuni casi, come anticipato, potrebbe ipotizzarsi anche un atto venatorio senza uso di mezzi di caccia (= mezzi studiati per abbattere o catturare animali), ma usando le sole mani od oggetti di uso comune (un bastone, un sasso). Però occorre che vi sia una prova certa dell’atto venatorio: non può certo essere punito chi viene trovato con un animale ferito, che ha solo raccolto. In questi casi perciò la prova si avrà solo di fronte a specifici e realistici atti di abbattimento.
- Il comportamento del soggetto non deve essere equivoco; il legislatore al comma 3 dell’art. 12 ha indicato quali sono le condotte che fanno presumere il compimento consequenziale di atti di abbattimento.
Se si volesse inquadrare il problema secondo il linguaggio del diritto penale (ovviamente solo in via analogica e solo per usare una terminologia nota ai giuristi) si potrebbe dire che la legge venatoria non punisce il reato impossibile (caccia all’elefante in Maremma), punisce il fatto tentato o consumato di uccidere o catturare un selvatico, considera sufficiente a integrare il tentativo il fatto di trovarsi in una situazione in cui è possibile usare i mezzo di caccia che si hanno per abbattere o cattura selvatici, non considera sufficiente ad integrare il tentativo il solo fatto di aver con sé mezzi idonei alla sola cattura dei selvatici.

La legge si è poi preoccupata di stabilire che l'attività venatoria si svolge per una concessione che lo Stato rilascia ai cittadini che la richiedano e che posseggano i requisiti previsti dalla presente legge. (art. 13)
La qualifica di concessione, indica che non si è di fronte ad una semplice autorizzazione che consente di svolgere una attività altrimenti soggetta a limitazioni, ma che al cittadino viene riconosciuto il diritto di svolgere una data attività se in possesso dei prescritti requisiti previsti dalle leggi (e non solo dalla presente legge, come erroneamente scritto).
Da quanto esposto risulta che il cacciatore può farsi accompagnare da chi vuole sul terreno di caccia e farsi aiutare da questi compagni ad avvistare e scovare la selvaggina; si potrebbe dire che se può farsi assistere da un cane, non si vede perché non possa farsi assistere da un essere umano. Però questo assistente non deve essere in possesso di mezzi di caccia poiché in tal caso diventa anch’egli un soggetto che esercita attività venatoria.
Se il cacciatore commette una infrazione, penale o amministrativa, è del tutto possibile che il suo assistente possa essere chiamato a rispondere, per concorso nell’infrazione se egli ha consapevolmente partecipato a commettere l’infrazione; ad esempio, se due persone vanno a posizionare lacci e trappole, entrambi risponderanno del fatto perché l’accompagnatore non poteva ignorare che la condotta era vietata e perché egli svolgeva una funzione utile, quantomeno come “palo”; se invece un soggetto si accompagna in periodo di caccia con un cacciatore che non ha rinnovato la licenza, risponderà di concorso nel reato solo di fronte alla prova che egli era consapevole di ciò.

Il prelievo venatorio
È nozione che va precisata perché usata dal legislatore più volte, ma con significati diversi e non sempre chiari.
La legge stessa si intitola non legge sulla caccia, ma legge per il prelievo venatorio; se avesse detto prelievo di selvatici si poteva intendere che la legge riguardasse ogni tipo di cattura di animali per qualsiasi scopo (venatorio, studio, ripopolamento, allevamento). Avendo precisato che riguarda solo il prelievo venatorio (cioè a fine di caccia), si dovrebbe concludere che la legge si occupa solo di quello.
Subito dopo però, all’art. 3, vieta il prelievo, senz’altra precisazione, di uova, nidi e piccoli nati. Voleva vietare il solo prelievo venatorio di questi prodotti della natura, oppure ogni tipo di prelievo? Mistero.
L’art. 4 regola la cattura di uccelli e il prelievo di uova, nidi e pulcini; in questo caso il prelievo sta ad indicare una forma di raccolta di prodotti che, come i funghi, basta ricercare, ma non richiedono attività di inseguimento e cattura. Ma allora se un cacciatore trova un animale ferito e lo raccoglie, fa un prelievo o una cattura?
L’art. 10 fa un altro salto linguistico perché scrive che in un centro di riproduzione è vietato cacciare, ma l’imprenditore agricolo può prelevare gli animali da vendere! Qui la differenza è puramente ideale; il fagiano si prende in ogni caso i pallini nella coda ma, se li ha sparati una persona non autorizzata è caccia, se li ha sparati il titolare del centro è prelievo. L’art. 12 si premura di ribadire che questo è un puro prelievo e non un atto di esercizio venatorio. Quindi non rientra neppure nella nozione di prelievo venatorio alla base della legge.
Tanto per confondere ulteriormente le idee, l’art. 17 c. 4 stabilisce che il titolare che in un centro di ripopolamento l’imprenditore agricolo può essere autorizzato al prelievo di mammiferi ed uccelli in stato di cattività con i mezzi di cui all'articolo 13. Norma che non voleva dire che gli animali da usare per ripopolamento si catturano a fucilate, ma che è possibile anche cacciarli come previsto per le aziende agricole.
Infine l’art. 19 bis, che richiama la caccia o cattura in deroga, prevista dall'articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 79/409/CEE, parla di prelievo riferendosi necessariamente al prelievo venatorio.
Tutti problemi che nascono quando si cerca di inventarsi un linguaggio che nessuno parla invece di usare parole consolidate da secoli e che tutti usano e comprendono.

Furto di animali
Sotto il vigore della legge quadro del 1977 alcuni giudici specialisti nell’usare il diritto come strumento per far valere le proprie idee politiche, aveva cercato di sostenere che il non rispetto delle norme venatorie equivalesse a commettere un furto di selvaggina in danno dello Stato! La tesi era stata prontamente controbattuta dalla Cassazione e, per tagliare la testa al toro, la legge del 1992 ha espressamente stabilito all’art. 30 comma 3 che nei casi di cui al comma 1 non si applicano gli articoli 624, 625 e 626 del codice penale. In altre parole: si applicano solo le sanzioni penali previste dalla legge sulla caccia e non le norme del codice penale sul furto.

Caccia a rastrello
L’art. 21 LC, lett. h, vieta di cacciare a rastrello in più di tre persone.
Non sarebbe stato male se il legislatore avesse spiegato che cosa intendeva perché qualche sprovveduto potrebbe credere che basta che quattro persone caccino affiancate per aversi la caccia a rastrello!
In realtà questa caccia, che più correttamente dovrebbe chiamarsi, secondo l’uso tradizionale, a rastello, è una forma di caccia con sue precise modalità.
Essa si ha quando in terreno aperto alcuni cacciatori (un tempo la legge ne richiedeva aleno cinque, ora almeno quattro) si dispongano su una linea retta o a semicerchio, regolarmente distanziati l’uno dall’altro, e avanzino poi sul terreno battendolo in modo che ogni selvatico fugga in avanti e venga preso di mira dal cacciatore più vicino. È normale che in questa caccia vi siano degli ausiliari, che marciano fra un cacciatore e l’altro e fungono da battitori, così consentendo ai cacciatori di raddoppiare la distanza fra l’uno e l’altro.
Perciò la caratteristica essenziale della caccia a rastrello non è la presenza di più cacciatori assieme, ma il fatto che essi collettivamente battano un’ampia fascia di terreno stando allineati sulla linea di battitura, il che dà poco scampo ai selvatici che si trovano all’interno della fascia e che possono essere colpiti da due cacciatori.
È anche chiaro che in certe situazioni ambientali è la stessa natura del terreno a non rendere realizzabile a la caccia a rastrello.
La LC non prevede alcuna sanzione che potrà essere stabilita dalle leggi di quelle regioni in cui tale forma di caccia è ipotizzabile.

Giurisprudenza
Per la punibilità dell'atteggiamento di caccia desunto dallo uso di mezzi fraudolenti, la legge non richiede alcun nesso di immediatezza tra il compimento degli atti diretti a ricercare, scovare o attirare la selvaggina, ed il compimento degli atti successivi indispensabili per attuare l'evento dell'uccisione o della cattura. Cass,. 3 maggio 1968, n. 742.
Massima formulata in modo illogico; doveva scrivere essere ovvio che chi cerca o attende selvaggina con mezzi di caccia, lo fa per abbatterla o catturarla e che tutto il resto è irrilevante.
L'ampia nozione di “esercizio di caccia” comprende non solo la effettiva cattura od uccisione della selvaggina, ma anche ogni preliminare organizzazione di mezzi, ogni atto che, comunque, appare diretto a tale fine. Pertanto l'apprestamento dei richiami destinati ad attirare la selvaggina di passo e la loro collocazione in un appostamento fisso di caccia (lasciandoveli per tutta la notte) è atto di esercizio di caccia. Cass., 27 ottobre 1969, n. 1908.
Massima errata anche in base alla legge del 1939 che richiedeva comportamenti ben più concludenti per aversi l’atteggiamento di caccia ed in particolare l’avere con sé strumenti idonei alla uccisione o cattura dei selvatici.
 L'atteggiamento venatorio e ben ravvisabile nel comportamento del cacciatore trovato in possesso di mezzi fraudolenti. (nella specie uso di autovettura con faro supplementare). *Cass., del 20 marzo 1970, n. 711
Massima formulata male; il fatto di guardare un capriolo con un faro non dimostra di certo la volontà di cacciarlo, se non si ha un fucile!
È atteggiamento di caccia quello di chi esplode un colpo per provare le cartucce e ricarica subito dopo il fucile. Cass., 17 ottobre 1974, n. 4275
Massima di sublime stupidità; se un esplode un colpo per provare un fucile dimostra pienamente che non vuol abbattere animali; e se ricarica l’arma lo fa per provare una seconda cartuccia; non certo per sparare ad animali; solo i giudici della Cassazione credono che un animale dopo il primo sparo, stia tranquillo ad attendere il secondo! Andavano valutate ben diversamente le circostanze del fatto.
Il concetto di esercizio venatorio deve essere inteso in senso ampio quale attitudine concreta volta alla uccisione ed al danneggiamento di uccelli e di animali in genere. L'attitudine può ricavarsi da elementi quali il possesso di fucile e delle relative cartucce, lo sparo di uno o più colpi, l'accompagnamento con un cane da caccia, l'insieme delle altre circostanze di tempo e di luogo. Il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato. Perciò la polizia giudiziaria può legittimamente procedere al sequestro probatorio del fucile e delle cartucce appartamenti a chi sia trovato in atteggiamento venatorio. Cass., 30 settembre 1994, n. 2555.
Integra la contravvenzione prevista dall'art. 30 lettera i) della legge 11 febbraio 1992 n. 157, che punisce chi esercita la caccia sparando da autoveicoli, natanti o aeromobili, non chi esercita dal natante (o autoveicolo o aeromobile) una qualunque delle operazioni in cui si sostanzia l'attività di caccia (spostamento sul luogo di caccia, recupero della selvaggina in acqua), ma solo chi dal natante compie quell'atto centrale della caccia che è lo sparo contro la selvaggina. Cass., 21 novembre 1995, n. 697
Massima della cui correttezza si può dubitare; le regole da applicare sono quelle sul concorso di reati o violazioni ed è chiaro che due bracconieri assieme di notte concorrono nel bracconaggio. Si tratta di valutazione di merito da fare caso per caso accertando il contributo dato da chi partecipava all’azione senza avere su di sé mezzi di caccia e la conspevolezza dell’illecito commesso da altri.
L'ampia nozione di esercizio di caccia comprende non solo l'effettiva cattura od uccisione della selvaggina, ma anche ogni attività prodromica o preliminare organizzazione dei mezzi, nonché ogni atto, desumibile dall'insieme delle circostanze di tempo e di luogo, che, comunque, appare diretto a tale fine. Tali sono l'essere sorpreso nel recarsi a caccia, con l'annotazione sul relativo tesserino, in possesso di richiami vietati; il vagare o il soffermarsi con armi, arnesi o altri mezzi idonei, in attitudine di ricerca o di attesa della selvaggina. Cass., 5 giugno 1996, n. 6812
Massima discutibile su di un punto:il fatto di recarsi a caccia, ma di trovarsi ancora sull’autostrada, non dimostra ancora che si caccerà effettivamente. Neppure una banda di rapinatori con le armi, viene punita per tentata da rapina in una situazione del genere!
Nel caso in cui il reato venatorio sia stato accertato in periodo di caccia chiusa (tenuto presente l'art. 18 della legge 11 febbraio 1992 n. 157) e, quindi in divieto generale di caccia, il reato di cui alla lett. a) dell'art. 30 citata legge concorre con quello di cui alla lett. h) dello stesso articolo (caccia con richiami vietati).Ciò in quanto il tenore letterale della previsione sub h)dell'art. 30 non contiene alcun elemento che testualmente o logicamente possa riferire il relativo divieto alla sola caccia praticata nei giorni autorizzati dal calendario venatorio ed avendo le due norme diversa obiettività giuridica. Cass., 26 febbraio 1998, n. 4454.
La nozione di esercizio di attività venatoria usata nella legge 11 febbraio 1992 n. 157 non può essere intesa in senso riduttivo, dovendosi ritenere che essa comprenda non solo l'effettiva cattura o uccisione della selvaggina, ma anche ogni attività preliminare, e la complessiva organizzazione dei mezzi e, pertanto, qualsiasi atto, desumibile dall'insieme delle circostanze di tempo e di luogo, che appaia diretto a tale fine. Conseguentemente costituisce atteggiamento di caccia l'ispezione di trappole predisposte per la cattura di richiami vivi. Cass., 26 novembre 1998, n. 452
Massima troppo generica; penso a chi cerca i funghi e si trova davanti una trappola con richiamo. Va forse condannato perché si ferma ad ispezionarla? E comunque è valutazione sul fatto che la Cassazione non dovrebbe mai fare.
La nozione di esercizio venatorio rilevante per l'applicazione delle sanzioni penali previste dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, comprende necessariamente la disponibilità di mezzi idonei all'abbattimento o alla cattura della selvaggina. Ne consegue che la mera disponibilità di un richiamo utile ad attirare pennuti, per quanto lo stesso risulti di genere vietato, non integra la contravvenzione di cui all'art. 21 lett. r) della citata legge n. 157 del 1992 quando, per la mancanza di strumenti utili alla soppressione o all'apprensione degli stessi pennuti, non sia riferibile a persona in atteggiamento di caccia. *Cass., 11 novembre 2003, n. 48100
Massima del tutto corretta.
Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui agli artt. 11, comma terzo lett. f), e 30 della legge 6 dicembre 1991 n. 394, è sufficiente la constatata presenza del privato, senza la prescritta autorizzazione, all'interno di un'area protetta ed in possesso di un'arma e munizioni, indipendentemente dalla flagranza dell'attività venatoria o dell'atteggiamento di caccia, atteso che il divieto di portare armi all'interno delle aree protette costituisce lo strumento prescelto dal legislatore per la radicale salvaguardia della fauna protetta del parco. *Cass., 22 marzo 2005, n. 17611.
Massima corretta, ma formulata male; per aversi il reato di introduzione di arma in un Parco, basta avere l’arma con sé, anche scarica; altre infrazioni o reati venatori richiedono la specifica condotta prevista dalla norma e quindi, ad es. l’atteggiamento di caccia.
In tema di caccia, l'abbattimento di un esemplare nel periodo della stagione venatoria, ma al di fuori del più limitato arco temporale nel quale è consentita la caccia alla specie cui l'animale abbattuto appartenga, integra il reato di cui all'art. 30, lett. a), legge n. 157 del 1992 e non quello di cui all'art. 30, lett. h, legge n. 157 del 1992) che punisce, invece, l'esercizio dell'attività venatoria non in relazione al tempo, ma all'abbattimento, alla cattura e alla detenzione di una particolare specie. Cass. n. 32058 del 20/02/2013

Nella nozione di esercizio venatorio non rientrano esclusivamente la cattura e l'uccisione della selvaggina, ma anche l'attività preliminare e la predisposizione dei mezzi ed ogni altro atto diretto alla cattura e all'abbattimento in tal senso qualificabile dal complesso delle circostanze di tempo e di luogo in cui esso viene posto in essere. Cass. n. 16207 del 14/03/2013

Il reato di furto aggravato di fauna ai danni del patrimonio indisponibile dello Stato è configurabile, nonostante la disciplina dell'attività venatoria sia stata regolamentata dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157, qualora l'apprensione, o il semplice abbattimento della fauna sia commesso da persona non munita di licenza di caccia. Cass. n. 48680 del 06/06/2014.
Massima un perfetto contrasto con la legge! Certi magistrati usano il loro Corano e non i codici.


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